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Cnewa: «La Chiesa non lesina sforzi per la Siria, ma urge soluzione politica»

Manuela Borraccino
24 gennaio 2014
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Cnewa: «La Chiesa non lesina sforzi per la Siria, ma urge soluzione politica»
Monsignor John E. Kozar, segretario generale della Cnewa.

È urgente che dal vertice Ginevra 2 emerga una soluzione politica, mentre la Chiesa non risparmia sforzi sul piano diplomatico e umanitario. Lo rimarca in un colloquio con Terrasanta.net mons. John E. Kozar, segretario generale dell’Associazione per l’assistenza ai cattolici del Vicino Oriente (la Cnewa), braccio umanitario della Santa Sede per i cristiani mediorientali.


(Roma) – È urgente che dal vertice Ginevra 2 emerga una soluzione politica, mentre la Chiesa non risparmia sforzi sul piano diplomatico e umanitario. «Andiamo a cercare i cristiani per aiutarli ovunque si trovino, e non ci scusiamo per questo: del resto assistiamo tutti, senza distinzione. Non chiudiamo la porta in faccia a nessuno», rimarca in un colloquio con Terrasanta.net mons. John E. Kozar (67 anni, statunitense), dal giugno 2011 segretario generale dell’Associazione per l’assistenza ai cattolici del Vicino Oriente (Catholic Near East Welfare Association, Cnewa), braccio umanitario della Santa Sede per i cristiani mediorientali, nonché d’Etiopia, Eritrea e India.

Monsignor Kozar, qual è la visione d’insieme che emerge dalle vostre attività regionali?
La crisi siriana sta avendo un impatto enorme su tutte le nostre missioni: c’è un afflusso continuo di rifugiati in Libano e in Giordania, siamo preoccupati per il peggioramento delle condizioni dei rifugiati iracheni e palestinesi che già seguivamo, e per l’instabilità in alcune regioni dell’Egitto. È una situazione di sofferenza intollerabile: stiamo parlando di quasi tre milioni di rifugiati, nove milioni di sfollati interni, un milione e 200 mila bambini che sono stati separati dalle loro famiglie, 12 mila bambini uccisi…

Che impressione ha tratto dai recenti colloqui avuti in Vaticano?
Questa guerra va fermata per le conseguenze incalcolabili su tanti piani diversi. Non c’è solo l’assassinio di un popolo con lo scontro fra i cosiddetti ribelli e i fedeli al regime. Così tante potenze esterne sono coinvolte in questa guerra… con danni interni, per il degrado dei rapporti fra le varie comunità; danni esterni, per il deterioramento dei rapporti internazionali; danni economici, per la distruzione e la povertà che la guerra ha creato; danni ecologici per la siccità e la carestia, con il rischio di far morire di fame migliaia di persone; danni religiosi, per il conflitto fratricida fra sunniti e sciiti e le altre minoranze non musulmane.

Cosa l’ha colpita dei resoconti ascoltati?
Personalmente sono rimasto molto impressionato dalla testimonianza dell’arcivescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo, che ha messo davanti ai nostri occhi le emergenze pastorali che tutto ciò sta creando. Ci ha raccontato della collaborazione fra cristiani e musulmani per salvare il maggior numero di vite possibile e degli appelli che si levano dalla popolazione. Mi ha colpito che le vere vittime di questa guerra, le persone più povere – non solo i cristiani ma anche tantissimi musulmani – gli stiano chiedendo di portare al Papa questo messaggio: «Per favore, Santo Padre, lei è probabilmente l’unica persona sulla terra che può porre fine a questa guerra, per favore faccia qualcosa per arrivare alla pace». Dai cristiani ce lo aspettiamo, ma che da così tanti musulmani si levi questa supplica è molto significativo della considerazione che questo Papa si è conquistato in pochi mesi, come autorità morale mondiale.

Pensa che sia realistico il raggiungimento di un cessate il fuoco totale e una cessazione del traffico di armi, come chiesto a più riprese dalla Santa Sede?
Io resto moderatamente ottimista, pur non ritenendomi un ingenuo. È chiaramente l’unica cosa da fare per tutte le parti coinvolte, poiché non c’è una soluzione militare alla crisi siriana. Le dirò di più: l’appello rivolto dal Vaticano è il segno del multiforme impegno messo in campo dalla Santa Sede a tutti i livelli – non solo umanitario ma anche politico, diplomatico, del dialogo interreligioso – per arrivare a una soluzione. Lo si è visto fin dalla decisione personale di Papa Francesco di indire una giornata di preghiera e di digiuno per la pace, lo scorso 7 settembre. Questo Papa, in particolare, sembra aver toccato il cuore di tutti, io spero anche dei più estremisti. Egli chiede alla Chiesa di essere parte del dialogo di riconciliazione nazionale. La Chiesa sta facendo tantissimo sul piano umanitario, ma è urgente che dalla conferenza di Ginevra emerga una soluzione politica e diplomatica.

C’è qualcosa di distintivo che viene fatto per i rifugiati cristiani siriani?
Molti siriani non vogliono registrarsi nei campi profughi delle agenzie umanitarie e i cristiani per loro scelta e cultura non vogliono stare nelle tende: non si sentono a loro agio, preferiscono cercare rifugio da amici e parenti. In Libano, in particolare, dove già avevamo delle attività per i 400 mila rifugiati palestinesi e dove il governo non permette di costruire dei campi, li raggiungiamo nelle case e nelle parrocchie dove si trovano, attraverso la rete di sacerdoti maroniti, siriaci, ortodossi con cui collaboriamo. I cristiani li andiamo a cercare e non ci scusiamo per questo: del resto non chiudiamo la porta in faccia a nessuno e non rifiutiamo aiuti a nessuno. Anzi in vari Paesi molte nostre attività, in particolare quelle socio-sanitarie, servono al 90 per cento dei musulmani: perciò non chiediamo scusa per cercare i cristiani. Il nostro compito è quello di accompagnare le Chiese locali nel far fronte ai bisogni delle persone, e da sempre facciamo del nostro meglio perché i cristiani restino in Medio Oriente: dopotutto è un loro diritto fondamentale e una richiesta legittima dal punto di vista storico, giuridico, morale, culturale e spirituale.

Come li state aiutando ad affrontare questo periodo di gravi disagi?
Con l’aiuto di tanti eroiche suore e sacerdoti, cerchiamo di portare a tutti conforto e protezione e di preservare la dignità delle persone, che è la loro prima richiesta di base. Cerchiamo di fornire istruzione, che riteniamo fondamentale per la ricostruzione umana e materiale dopo la guerra, e di insegnare la cittadinanza: già insegnare ad essere buoni cittadini, diffondere la dottrina sociale della Chiesa, è un grande aiuto in questi Paesi.

In Iraq la Chiesa porta avanti da anni una battaglia di civiltà sul rispetto degli uguali diritti di cittadinanza per tutti. Ma finora i risultati sono scarsi…
L’Iraq è un’altra catastrofe e un motivo di dolore per tutti noi. L’intervento del mio Paese è andato nel peggiore dei modi: tutto ciò che di male poteva accadere, è accaduto. Gli scenari peggiori si sono realizzati e vediamo ora ripetersi per i cristiani siriani quello che è accaduto ai cristiani iracheni, costretti a fuggire. Le sfide sono per molti versi simili, sia in Iraq che in Siria.

Quali sono per lei i segnali di speranza?
Quello che mi fa ben sperare è l’aver visto con i miei occhi in ogni parte del mondo – non solo in Medio Oriente ma anche in Africa e in India – gli effetti della presenza delle nostre eroiche suore. La maternità, la tenerezza, la protezione, la fiducia che esse ispirano ha un valore inestimabile: riescono a infondere, anche nei conflitti più violenti, un senso di calma e di sicurezza che restituisce a bambini, anziani e adulti il senso di umanità perduto per le atrocità che hanno vissuto. Per me le suore rappresentano la prima linea della Chiesa, per così dire le sue truppe di fanteria. Non cercano riconoscimenti e sono pronte a morire per difendere i loro piccoli: lontano dall’Occidente, spesso sono l’unica esperienza cristiana per molti non cristiani. L’abbiamo visto anche con le 12 religiose sequestrate a Maalula, con i tre sacerdoti e i due arcivescovi rapiti in Siria: anche nelle situazioni più disumane, restano fedeli alla loro missione senza arretrare di un centimetro.

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