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La serata della Signora

di Sayyed el Wakil
6 febbraio 2014
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Stavolta Kushari assume una forma inconsueta e ci propone un salto nel passato recente dell’Egitto. L’occasione è data dall'anniversario della morte della cantante Umm Kolthum, una vera e propria diva scomparsa il 3 febbraio 1975. Nei giorni scorsi molti nel mondo arabo hanno scritto in suo onore ed Elisa Ferrero ci propone una sua traduzione dall’arabo della testimonianza-racconto composta dallo scrittore cairota e critico letterario Sayyed el Wakil.


Stavolta Kushari assume una forma inconsueta e ci propone un salto nel passato recente dell’Egitto. L’occasione è data dall’anniversario della morte della cantante Umm Kolthum, una vera e propria diva, scomparsa il 3 febbraio 1975. Nei giorni scorsi molti nel mondo arabo hanno scritto in suo onore ed Elisa Ferrero ci propone una sua traduzione dall’arabo della testimonianza-racconto composta dallo scrittore cairota e critico letterario Sayyed el Wakil. È un piccolo affresco di un Egitto che fu, quando la voce di Umm Kolthum riusciva a unire tutto il Paese in un attimo di pace. Buona lettura!

***

Il concerto di Umm Kolthum era il primo giovedì di ogni mese. Nessuno si meravigliava quando l’Egitto cominciava a muoversi, fin dalle cinque di sera, verso un’unica meta: la serata della Signora. Non solo i caffè, che accatastavano le sedie, lavavano i narghilè e tagliavano il tabacco in base al livello sociale dei clienti. Non solo i bar del centro città. Non solo il caffè Umm Kolthum in via Orabi, al quale affluivano giornalisti e impiegati di alto grado, innamorati della Signora, che tuttavia non avevano l’opportunità di assistere ai suoi concerti a teatro. Anche i tassisti, che non cessavano di trasportare clienti. Anche i venditori di basturma (una sorta di insaccato speziato di carne bovina – ndr), pesce fritto, mortadella, olive nere e acciughe. Persino le venditrici di rucola e cicoria. Tutti sapevano che quella era la serata della serenità, dopo tanti dispiaceri e fatiche. E buon nuovo mese a tutti.

Nei vicoli e nelle strade laterali, aveva inizio la missione dei bambini, sotto la supervisione dei ragazzi: spazzare la strada e spruzzarla con acqua. Stendevamo la stuoia, le lenzuola e i cuscini del divano, preparandoli per la seduta. Come sempre, la riunione principale sarebbe stata sotto il balcone di Amm Shawqi, al pianterreno. Sapevamo che era un tipo servizievole, generoso e che sapeva godersi la vita. Ci avrebbe passato un cavo elettrico e una sedia su cui mettere la radio, inoltre si sarebbe seduto sul suo balcone, proprio come se fosse stato assieme a noi. Fra noi e lui c’era solo una bassa balaustra. Con i grandi scambiava bicchieri di birra e sigarette di hashish. Gli uomini che partecipavano alla serata non dovevano assolutamente tardare oltre le dieci, altrimenti avrebbero dovuto pagar pegno con arachidi e noccioline. Sapevamo, ogni volta, che ci sarebbe stato per forza qualcuno che avrebbe tardato, portando di sua iniziativa arachidi e noccioline.

In ogni caso, i cuscini erano destinati ai grandi, che avrebbero appoggiato al muro la schiena rotta dalla fatica. Noi ci saremmo seduti sui bordi della stuoia, oppure su pietre che conservavamo nelle nostre strade, per fare da pali delle porte quando giocavamo a calcio.

Il rituale, di solito, iniziava con i bicchieri del tè. La moglie e le figlie di Amm Shawqi erano di servizio tutta la sera. In cambio, godevano del rispetto delle donne delle altre case, per questo si facevano carico volontariamente dei turni del tè, chiamando il marito per portare il vassoio. La signora Matilda, invece, moglie dell’ispettore Nagy Qaldas, era una donna distinta, di famiglia rispettabile. Suo marito non si sedeva in strada in mezzo a noi, però avrebbe mandato suo figlio Essam con del gelato alla cannella, permettendogli di restare un po’ di tempo con noi, forse fino all’alba. L’ispettore Nagy, dal suo balcone al secondo piano, partecipava più o meno a tutto quel che facevamo. Metteva la radio sulla balaustra, alzando il volume al massimo, e teneva vicino a sé una bottiglia di liquore di eucalipto, dei piatti di rucola e un bicchierino con lettere dorate. Sospirava di passione per la Signora assieme a tutti noi, dando la buonasera a ogni nuovo venuto ritardatario. Le donne dei piani alti sapevano che la signora Matilda sedeva sul pavimento del suo balcone, ai piedi del marito, bevendo eucalipto con lui, e ascoltando tutti i discorsi degli uomini in strada e i sussurri delle altre donne.

Di solito, il concerto iniziava con una vecchia canzone, mentre quella nuova apriva la seconda parte. Alla fine di questa, alcuni potevano andarsene, se il venerdì dovevano lavorare. Normalmente, il primo ad andar via era mastro Erian, che ci ricordava, tutte le volte, che era di turno e aveva bisogno di dormire un po’. Erian, tessitore presso una fabbrica di tessuti, commerciava con le stoffe che gli passava lo stabilimento. Mio padre rideva, dicendo: «Erian rimarrà sempre nudo! (gioco di parole: Erian significa appunto «nudo» – ndt). Quando gli danno dei vestiti, lui se li vende!»

Erian era antipatico, non mangiava né beveva con noi, né contribuiva a pagare lo zabbal, l’uomo che il giorno successivo raccoglieva la spazzatura della serata. Ciononostante, ci teneva a sedersi con noi, tenendo in mano una radio a transistor speditagli dal figlio, combattente nella guerra dello Yemen. La radio aveva un suono stridulo e pesava parecchio, rovinandoci il piacere dell’ascolto. Protestavamo, ma lui continuava a orientare la radio a destra e a sinistra, senza mai spegnerla. Aspettavamo impazienti il momento in cui avrebbe annunciato che se ne andava (perché aveva il turno), allora dicevamo all’unisono: «Addio, Erian!»

A quel punto, la voce della Signora usciva pura da tutti i balconi e da tutte le finestre del circondario. Durante la terza parte della serata, qualcuno dei vicini si era già addormentato e aveva spento la radio, o abbassato il volume. All’approssimarsi dell’alba, eravamo mezzi ebbri e mezzi insonnoliti, mentre la voce tranquilla di Galal Maoud annunciava, come una salmodia, la fine del concerto e noi raccoglievamo la stuoia e le coperte, issando i cuscini sulle nostre spalle.

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