Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Obiettori di coscienza in Israele: «Il nostro no a una società militarizzata»

Chiara Cruciati
2 maggio 2014
email whatsapp whatsapp facebook twitter versione stampabile
Obiettori di coscienza in Israele: «Il nostro no a una società militarizzata»
I tre giovani obiettori di coscienza israeliani che prendono la parola in questo servizio.

In passato ci siamo già occupati del fenomeno dei (pochi) giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio di leva in un contesto di occupazione militare dei Territori palestinesi. Giorni addietro abbiamo ascoltato le voci di tre di loro. Vogliamo qui rilanciarle ai nostri lettori, senza troppi commenti.


(Gerusalemme) – «Crescere in una società militarizzata fa diventare l’esercito e le sue armi trasparenti. Semplicemente, non le vedi più. Non vedi le pistole che i civili hanno appese ai pantaloni quando vanno a fare spesa e non vedi i fucili M16 che i soldati hanno sulle spalle per la strada».

Sahar Vardi è giovanissima. Ha 23 anni e quattro anni fa ha rifiutato di vestire l’uniforme dell’esercito israeliano. Quelli come lei in Israele li chiamano refusnik, anche se loro preferiscono qualificarsi come «obiettori di coscienza». Sono pochi ogni anno: dopo il boom nel periodo della Seconda intifada palestinese (2000-2004), quando centinaia di giovani israeliani rifiutarono di servire nelle file dell’esercito, negli ultimi anni il loro numero è calato. Almeno fino ad oggi: poche settimane fa un gruppo di 50 studenti di scuola superiore ha scritto al premier israeliano Benjamin Netanyahu per annunciare l’intenzione di non vestire l’uniforme. Il loro numero in poco tempo è cresciuto sfiorando quota 100. E potrebbe crescere.

«La nostra società è intrappolata nella normalizzazione della violenza – ci spiega Sahar –. Le armi, i carri armati, gli aerei militari sono come trasparenti. O peggio, non sono considerati come qualcosa di “cattivo”, di “sbagliato”. Durante gli anni della scuola superiore, ti bombardano con la propaganda pro-esercito: ogni anno devi trascorrere una settimana in una base militare per il primo vero addestramento. Ti insegnano a tenere in mano una pistola o un fucile, a vestire l’uniforme. Non hai nemmeno il tempo di pensare, di muovere delle domande, di mettere in dubbio la struttura di una simile società. Da bambino cresci nella paura continua del diverso: le insegnanti in gita in Europa ti dicono di non parlare ebraico perché gli europei ci odiano; la canzone che cantiamo per le feste dice: “Nel mondo ci sarà sempre qualcuno che vuole sterminarci”. Ci educano nella paura, nel terrore di essere odiati e così alimentano l’attaccamento all’esercito».

Gilad le siede accanto. Ha 16 anni ed è uno dei firmatari della lettera del «gran rifiuto». Ha i capelli rossi e la faccia pulita: «Le armi sono parte della mia vita e della mia identità di israeliano. Sono circondato da armi e soldati come il resto della popolazione, ma non mi sento parte di tale narrativa. Per questo ho deciso di firmare quella lettera: prima di tutto perché sono contrario all’occupazione militare dei Territori Palestinesi e, secondo, perché sono contrario alla mentalità maschilista che prevale nell’esercito e che viene traslata nella società civile e nella sua strutturazione».

«Ovviamente, pagherò per questo rifiuto – continua Gilad –. La mia scuola ha già minacciato di espellermi a causa della cattiva pubblicità che avrei arrecato all’istituto. In Israele, sapete, lo Stato riconosce finanziamenti in proporzione al numero di studenti che si arruolano e la mia scuola, a Tel Aviv, è una delle “migliori” in questo senso, con il 95 per cento di allievi arruolati al termine dei corsi. Ogni anno nelle classi vediamo soldati che danno lezioni, generali che parlano alle conferenze. E trascorriamo una settimana in una base militare ad imparare a fare i soldati. Ecco perché dico che l’esercito è la base fondante della società israeliana, del suo sistema educativo e della sua identità».

Le conseguenze per questi giovani ragazzi arriveranno a breve. Per chi rifiuta di servire l’esercito per ragioni politiche si aprono le porte del carcere: «Sono tre le ragioni che vengono date per non fare il militare – spiega Sahar – Problemi di salute fisica o mentale, incompatibilità (nel caso di fedine penali sporche)  e l’obiezione di coscienza. L’ultimo è ovviamente il più problematico perché né lo Stato né la società accettano una tale decisione: si viene arrestati per 42 giorni, poi si torna di fronte a un tribunale che può allungare la detenzione di altri 42 giorni e così via. Ma le conseguenze peggiori arrivano dopo, quando tenti di integrarti nella società: la tua scelta ti rende un pariah, un escluso».

Ai colloqui di lavoro la domanda «In quale unità hai servito?» è d’obbligo e l’obiezione di coscienza fa perdere molte opportunità di impiego. Per non parlare dell’esclusione sociale: «I miei genitori sono sionisti di sinistra, hanno fatto il militare, ma appoggiano la mia scelta – dice Gilad –. I miei zii, invece, sono di destra e ora non mi rivolgono più la parola. Per loro non esisto più».

«Mancanza di opportunità di lavoro, esclusione sociale e infine mancato accesso al sistema del welfare». Roni ha 18 anni, proviene da una famiglia ebrea ultraortodossa (anche se il codino e i capelli lunghi potrebbero ingannare) che rifiuta l’esercito non per ragioni politiche, ma religiose.

«L’esercito – dice Roni – permette di accedere a un sistema di privilegi e di welfare che lo Stato israeliano non riconosce da anni. L’esercito si sostituisce allo Stato sul versante dei bisogni sociali: se non hai abbastanza denaro, ti offrono aiuto economico o ti aiutano a finire gli studi». «Da parte mia, non ho mai avuto dubbi – continua –. Dico no all’esercito per motivi politici, non religiosi, come il resto della mia famiglia. Dove vedo il mio futuro? Qui. Non me ne andrò, l’occupazione militare è anche una mia responsabilità. Siamo tutti responsabili dell’oppressione, in maniera diretta o indiretta. Per questo abbiamo l’obbligo di alzare la voce, di non restare in silenzio come la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, tutti complici dell’occupazione».

Sahar ha trascorso due mesi in prigione per la sua decisione di rifiutare la divisa, ma – dice – non è niente se paragonato a quanto sopportato dai prigionieri palestinesi: «Le conseguenze legali sono minime. Sono peggiori quelle sociali, l’esclusione da determinate fette del mercato del lavoro e la discriminazione indiretta: ci sono leggi che privilegiano chi ha fatto il servizio militare nell’assegnazione di bonus fiscali o di case popolari. È il prezzo da pagare e io intendo pagarlo. C’è chi, dall’altra parte del Muro, subisce conseguenze ben peggiori. Mi sento responsabile dell’occupazione militare e non voglio far finta di niente. È nostro dovere alzare la voce, anche se siamo ancora pochi, non solo per il popolo palestinese, direttamente oppresso, ma anche per quello israeliano che senza rendersene conto vive in una bolla di paura e colonizzazione mentale».

La voce di un silenzio sottile
Johannes Maria Schwarz

La voce di un silenzio sottile

Un cercatore di Dio racconta
Il giardino segreto
Roberta Russo

Il giardino segreto

L’Albero del Natale e gli altri simboli della tradizione
David Maria Turoldo
Mario Lancisi

David Maria Turoldo

Vita di un poeta ribelle