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Gli (sporchi) affari del califfato islamico

Terrasanta.net
11 agosto 2014
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Gli (sporchi) affari del califfato islamico
Pozzo petrolifero vicino alla città di Kirkuk, in Iraq.

Come si finanzia il califfato islamico proclamato di recente su un vasto territorio di Siria ed Iraq? Facendo affari con il mercato nero del petrolio, rapinando i beni delle minoranze perseguitate, vendendo donne indifese, vedove ed orfane, al mercato degli schiavi. Guadagni che vengono reinvestiti nell'acquisto di armi, fondamentali per nuove razzie e conquiste.


(c.g.) – Come si finanzia il califfato islamico proclamato di recente su un vasto territorio di Siria ed Iraq? Facendo affari con il mercato nero del petrolio, rapinando i beni delle minoranze perseguitate, vendendo donne indifese, vedove ed orfane, al mercato degli schiavi.

L’ultimo agghiacciante metodo di autofinanziamento dei fondamentalisti emerge dalla denuncia di Mohammad al-Qusahi, responsabile della Mezza Luna rossa della piana di Ninive «I miliziani del califfato hanno fermato decine di famiglie delle minoranze turkmena, yazidita e cristiana in attesa di imbarcarsi su un volo all’aeroporto di Tel Afar – ha raccontato al-Qusahi all’agenzia in lingua araba Niniwa Media lo scorso 7 agosto -. Hanno ucciso tutti gli uomini e poi hanno preso le donne, portandole in un luogo segreto per venderle sul mercato di Mosul». Si tratta, insomma, della ricomparsa delle cosiddette Sabaya, termine arabo che indica la donna quando è «preda di guerra», da esporre e vendere al mercato. Disumano metodo di finanziamento, tornato in auge in queste settimane assieme al rapimento di donne, che vengono riservate alla soddisfazione dei desideri sessuali dei combattenti (sorte che sarebbe toccata ad almeno 400 malcapitate della minoranza yazidita della regione del Sinjar, assalita lo scorso 7 agosto dai miliziani islamici).

I pozzi petroliferi, le raffinerie e gli oleodotti sono obiettivi militari e fonti di guadagno importanti per i miliziani del califfato. Secondo Rudaw, agenzia di informazione curda, i fondamentalisti controllano oggi sette pozzi petroliferi e due raffinerie nel Nord dell’Iraq, Kurdistan compreso. Si pensa che, grazie alle loro conquiste, possano vendere circa 10mila barili al giorno, che equivalgono ad un guadagno quotidiano di 12 mila dollari netti. Inoltre i miliziani controllano circa 260 chilometri dell’oleodotto che connette Kirkuk con il porto di Ceyhan, in Turchia. «Gli islamisti vendono sottocosto il petrolio che scorre nell’oleodotto – spiega Bewar Khinsi dell’Agenzia di protezione curda -. Piazzano l’equivalente di circa 40 camion al giorno, o 10 mila barili». Le conquiste petrolifere dei fondamentalisti comprendono i pozzi di Gayaea (che possono produrre oltre 20 mila barili al giorno e dove la riserva stimata è di 20 miliardi di barili); i giacimenti di Ayn Zala (dai 70 agli 80 pozzi di petrolio, con una riserva totale di 4 miliardi di barili); i campi petroliferi di Hajelan, nella provincia di Salahaddin (con la capacità di produzione di 5mila barili al giorno e una riserva totale di 1 miliardo di barili).

Gli acquirenti dei jihidaisti sarebbero mercanti curdi o arabi locali. In particolare iracheni. «Camion con targhe irachene, sono arrivati ai pozzi petroliferi di Deir Ezzor, in Siria, dall’Iraq, per prendere petrolio e portarlo nell’Iraq occidentale – ha dichiarato al quotidiano al Arabyia l’Osservatorio siriano per i diritti umani -. Questi camion appartengono ad un affarista iracheno che è venuto in Siria a comprare petrolio da giacimenti sotto il controllo dei fondamentalisti». Ogni barile di petrolio viene venduto agli affaristi iracheni ad un prezzo variabile dai 20 ai 40 dollari (molto vantaggioso se si pensa che il costo di un barile sul mercato globale è intorno ai 100 dollari). Inoltre, i barili di petrolio sarebbero venduti alla popolazione autoctona ad un prezzo compreso tra i 12 e i 18 dollari, nel tentativo di assicurarsi il favore e la simpatia dei locali.  La vendita in nero del petrolio è un sistema di finanziamento così cruciale per i fondamentalisti che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato, lo scorso 28 luglio, una risoluzione che proibisce di comprare il petrolio dai gruppi terroristici in Siria e in Iraq. Il Consiglio ha messo in guardia gli acquirenti, dichiarando che comprare dalle organizzazioni fondamentaliste implica gravi sanzioni poiché equivale a finanziare attività terroristiche. Il Consiglio ha invitato tutti i Paesi a verificare che i loro cittadini non siano coinvolti in simili illecite attività e di denunciare attività di questo tipo al Consiglio di sicurezza.

Un grande vantaggio economico per i simpatizzanti del califfato è costituito dall’appropriazione dei perseguitati per motivi religiosi o sociali. Nel mese di luglio, ad esempio, l’agenzia curda Shafaq, ha pubblicato la notizia che a Mosul i fondamentalisti hanno iniziato a distribuire 50 case appartenenti a famiglie turkmene di religione sciita (fuggiti per paura di persecuzioni) a profughi provenienti dalla regione di Diyala. Le famiglie di Diyala, che vivevano in case in affitto, ora possono usufruire di appartamenti completamente gratuiti.

Uno dei sistemi di finanziamento utilizzato dai terroristi del califfato, infine, è la raccolta fondi nei paesi islamici, molto popolare in particolare della penisola arabica (Qatar, Arabia Saudita, Kuwait). Proprio il 7 agosto scorso Il Dipartimento di Stato americano ha informato di aver imposto sanzioni nei riguardi tre cittadini del Kuwait accusati di svolgere attività di finanziamento a favore di alcune organizzazioni terroristiche, tra cui i miliziani del califfato islamico.

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