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Haifa, la pacifica, tra mito e realtà

Chiara Cruciati
31 ottobre 2014
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Una passeggiata nella città vecchia di Haifa, la città del ritorno, simbolo per tanti profughi palestinesi costretti in esilio all’estero. Oggi è la città della «convivenza pacifica»: così viene definita dalle autorità israeliane una delle sette comunità miste dell’attuale Stato di Israele, dove arabi ed ebrei vivono fianco a fianco in pace. A quale prezzo?


Il traffico scorre veloce nella città vecchia di Haifa, la città del ritorno, simbolo per tanti profughi palestinesi costretti in esilio all’estero. Oggi è la città della «convivenza pacifica»: così viene definita dalle autorità israeliane una delle sette comunità miste dell’attuale Stato di Israele, dove arabi ed ebrei vivono fianco a fianco in pace.

È davvero così? «La città di Haifa viene spesso assunta a modello di convivenza civile tra palestinesi e israeliani, ma la realtà dei fatti è differente», ci spiega Bilal Dirbas, attivista palestinese e guida di turismo alternativo. «Basta camminare per le vie della città, in particolare in quella che era prima la città vecchia. Gli antichi quartieri arabi, le palazzine, le case, sono state distrutte per far spazio a grattacieli, palazzi ultramoderni e uffici governativi che hanno cancellato la storia e l’identità di Haifa».

Passeggiamo per le nuove piazze e strade della città. Prima del 1948 quella che oggi è piazza Parigi si chiamava Sahat al-Hanatir: era considerato il centro di Haifa, sede del mercato della frutta e della verdura, del mercato del pesce e della stazione dei bus. Da qui ogni giorno partivano pullman diretti a Beirut e Damasco, il mondo arabo era ad un passo. «Haifa era una città ricca, grazie al porto commerciale e alla zona industriale che nacque alla fine del XIX secolo. La città cominciò ad allargarsi oltre le mura e divenne un centro sociale e culturale di riferimento per tutta la Palestina. Qui nacquero i primi sindacati dei lavoratori e i club culturali. Era luogo di scambio commerciale e artistico: venivano qui lavoratori da tutto il Medio Oriente».

Bilal ci indica archi che non ci sono più: «Alla città vecchia si accedeva da due porte, la Porta Orientale e la Porta Occidentale, ma oggi non ci sono più, sono state distrutte dopo il 1948. Il 21 aprile 1948 le truppe inglesi lasciarono la città a bordo delle navi. Il giorno dopo, il 22 aprile, Haifa fu occupata da 5 mila soldati delle milizie sioniste. Prima di quel giorno vivevano qui 70 mila palestinesi, dopo ne rimasero circa il 7 per cento: 5 mila persone. L’unità militare sionista Haganah, guidata da Moshe Carmel, bombardò Haifa e ne assunse il controllo. Lasciarono aperta solo un’uscita: i palestinesi potevano fuggire a nord, verso il Libano, o a est, verso la Giordania. È quello che fecero oltre 60 mila persone, che si trasformarono in profughi».

«I palestinesi che vivevano sulla collina alle spalle della città vecchia, per sfuggire ai bombardamenti, si rifugiarono nella Piazza dell’Orologio – prosegue Bilal –, ma l’Haganah bombardò anche la piazza e la gente fuggì verso il mare, al porto. Scapparono a bordo delle barche dei pescatori».

Secondo lo storico israeliano Ilan Pappè, l’attacco provocò almeno 100 morti e decine di feriti, mentre con i megafoni i leader militari sionisti imponevano agli arabi di fuggire «prima che sia troppo tardi».

Un esodo di massa a cui seguì la demolizione dei vecchi quartieri arabi e della loro storia: le nuove autorità israeliane tentarono di cancellare le radici palestinesi della città, benché alcuni simboli restino in piedi ancora oggi, difficili da scovare, soffocati da palazzi e grattacieli. «Hanno demolito la città vecchia e l’hanno ricostruita in stile europeo – continua Bilal – Hanno cambiato i nomi delle strade e delle piazze, per far credere che prima qui non ci fosse nessuno, che fosse una terra vuota, senza popolo. Prendete la Piazza dell’Orologio. A pochi passi hanno costruito la Vela, un grattacielo sede di uffici governativi. Sovrasta la piccola torre, che dalla strada ormai non si vede più. Lo stesso dicasi della Chiesa di Nostra Signora: è schiacciata tra un crogiolo di edifici moderni, non si vede più da fuori».

Camminiamo per quello che prima del ’48 era il quartiere di Wadi Salib (la valle della croce): dei vecchi palazzi resta ben poco. La maggior parte sono stati demoliti, alcuni sono stati ristrutturati e vengono utilizzati dal Comune di Haifa. Altri vengono lasciati lì, a cadere a pezzi: «Le poche case che restano sono vuote, non sono state nemmeno occupate per darle a cittadini ebrei. Sono tutte in attesa di demolizione. Dal 1948 sono proprietà dello Stato di Israele, dopo l’esodo dei rifugiati, secondo la legge dei Presenti Assenti e vengono lasciate marcire. Come la nostra storia».

Oggi Haifa conta una popolazione di 266 mila persone, l’82 per cento ebrea, il restante araba (con prevalenza della componente cristiana). Fin dagli albori dello Stato di Israele, subito dopo il 1948, la città è stata una delle principali destinazioni dell’immigrazione ebraica europea, per il clima mite e il porto, che ne fanno uno dei più importanti scali commerciali del Mediterraneo. Negli anni Settanta e Ottanta, il governo israeliano ha adottato una serie di politiche volte ad incrementare il numero di immigrati ebrei, attirando oltre 35 mila ebrei (e non) dall’allora Unione Sovietica.

«Qui la convivenza non esiste, io la chiamerei piuttosto “condivisione forzata degli spazi”. Le autorità israeliane operano con una discriminazione diretta e indiretta. Diretta, attraverso le leggi dello Stato: sono circa 50 le normative che distinguono tra chi è in possesso solo della cittadinanza israeliana, ovvero i palestinesi, e chi possiede anche la nazionalità ebraica, ovvero gli ebrei. È l’unico caso al mondo, la cittadinanza non coincide con la nazionalità», osserva ancora Bilal.

«E poi discriminazioni indirette: allocazione diversa delle risorse alle comunità palestinesi, mancati investimenti, possibilità di costruire solo nel 3 per cento del territorio benché i palestinesi rappresentino il 20 per cento della popolazione israeliana, un sistema educativo che vieta di trattare a scuola temi legati alla storia della Palestina».

L’educazione, dice Bilal, è affidata alle famiglie, agli individui, ma il divario che si viene a creare è spesso difficilmente colmabile e sono sempre più numerosi i bambini e gli adolescenti che della propria storia e identità sanno ben poco. A tentare di mettere una pezza ci sono alcune associazioni palestinesi che lavorano proprio sul concetto di identità attraverso l’arte.

È il caso del centro Al Warsha, nel cuore della città vecchia di Haifa. Samieh Jabbarin, attivista palestinese di lungo corso e ideatore del progetto che ha da poco superato il secondo anno di attività, ci spiega: «In questa terra non è affatto scontato sentir parlare di identità palestinese. La stessa comunità locale si autoproclama araba, una definizione imposta dalle autorità israeliane per annichilire le nostre radici. È questo l’obiettivo che ci siamo dati con il centro: riaffermare la nostra identità, che è unica e che va da Haifa a Betlemme, da Gerusalemme al deserto del Naqab (o del Neghev – ndr) fino ai campi profughi nel resto del Medio Oriente. Siamo parte dello stesso territorio e delle stesse radici culturali».

Al Warsha offre gratuitamente i propri spazi a chiunque voglia produrre arte, oppure organizzare laboratori o seminari di pittura e fotografica, o semplicemente sia alla ricerca di uno spazio in cui lavorare o esporre le proprie opere. Solo uno è il requisito «imposto» da Samieh: il richiamo all’identità palestinese, minacciata di scomparsa dalla pervasiva cultura ebraico-europea.

Accanto all’arte, il centro organizza ogni domenica intere giornate dedicate ai bambini palestinesi: sette ore di giochi, favole e tanta storia – in primis quella palestinese –, che nei libri di scuola non si trova più.

«Un bilancio dopo due anni? – conclude Samieh –. Finanziariamente siamo a pezzi, ma abbiamo energie da vendere, molto più entusiasmo di quando cominciammo. Un entusiasmo che ci viene da chi frequenta il centro, dai genitori che ci ringraziano perché sentono i figli a tavola parlare di diritti e di arte, parlare solo in arabo e raccontare la storia della nostra sofferenza».

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