Intifada dei bambini, un prezzo troppo alto
A metà ottobre, presso l’Università di Herzliya, la città intitolata al fondatore del sionismo, ha avuto luogo un convegno dal titolo: «Coinvolgimento dei bambini nel terrorismo». Dato il clima che si respira da molte settimane in Israele, il discorso ha trattato anche il caso di tanti minori palestinesi che sono per le strade a lanciare sassi. Sono bambini o terroristi?
Neanche a farlo apposta, a metà ottobre, presso l’Università di Herzliya, la città intitolata al fondatore del sionismo, ci hanno dedicato un convegno. Il titolo («Coinvolgimento dei bambini nel terrorismo»), lasciava aperto il campo alle analisi su molti teatri di guerra, dalla Siria all’Iraq, dove ormai schiere di bambini soldato vengono impiegati nelle fila dell’esercito dello Stato islamico. Secondo la Corte penale internazionale è considerato un crimine di guerra l’arruolamento di bambini al di sotto dei 15 anni nelle forze armate nazionali, o la loro partecipazione attiva ad azioni promosse da movimenti militari di qualsiasi tipo. Ugualmente i bambini al di sotto di quella età non sono considerati perseguibili
Dato il clima che si respira ormai da molte settimane in Israele, il discorso, nelle aule dell’università di Herzliya, non ha potuto non toccare anche il caso di tanti minori palestinesi che in Israele, anche in queste ore, sono per le strade a lanciare sassi, per protestare contro l’occupazione e contro le azioni di rappresaglia messe in atto dall’esercito dopo gli attentati che hanno nuovamente insanguinato Gerusalemme. Minori dieci-undicenni che vengono arrestati da ragazzi israeliani in divisa non molto più anziani di loro.
Il tema della strumentalizzazione e dell’utilizzo dei bambini nelle forme di protesta e di lotta contro Israele è quanto mai delicato. È stato uno dei motivi centrali della prima intifada, ed è stato resuscitato in questa occasione, anche facendo leva sul fatto che la responsabilità penale, per il Tribunale minorile militare d’Israele (di questi reati non si occupa la giutizia ordinaria, ma la magistratura militare) è applicata «solo» a chi ha compiuto 12 anni.
Da una parte c’è dunque la responsabilità delle organizzazioni palestinesi, Hamas in testa, che istigano e plaudono a questa nuova «intifada dei bambini»: negli ultimi 2 mesi, secondo fonti di polizia, su 760 fermi a Gerusalemme Est, 260 sono stati operati su minorenni. Anche per loro si sono spalancate le porte delle carceri militari israeliane, da dove difficilmente potranno uscire meno arrabbiati o meno plagiati dall’ideologia della violenza.
Dall’altra però, c’è una responsabilità d’Israele, che non può derogare dalla sua coscienza civile e dal rispetto dei diritti umani: fino a che punto questi ragazzi possono essere infatti considerati dei terroristi? Il perseguirli penalmente tramite i tribunali militari è la strada migliore, la più efficace? Il direttore esecutivo Boaz Ganor del Centro internazionale contro il terrorismo dell’Università di Herzliya qualche dubbio lo ha manifestato: «Non tutti i lanci di pietre devono essere considerati atto di terrorismo. Solo le azioni promosse da un’organizzazione terroristica con l’intento di raggiungere obiettivi politici contano come azioni terroristiche, non le azioni spontanee e indipendenti». Ma è proprio su questa distinzione che il convegno di ottobre ha voluto glissare, forse sotto l’impatto emotivo delle violente proteste che infiammano a Gerusalemme.
Perché delle due l’una: o i bambini palestiensi che lanciano sassi, compiendo esecrabili atti vandalici a Hebron come a Gerusalemme Est, sono bambini soldato. E allora va chiesto alla Corte penale internazionale di perseguire le organizzazioni che mandano questi piccoli in strada per il crimine di guerra che commettono (ma ugualmente, avendo per la maggior parte dei casi meno di 15 anni, questi minori non sono perseguibili). Oppure sono vittime sacrificali di un clima di violenza che non hanno creato loro. Sono certamente istigati, magari dalle loro stesse famiglie; vivono il delirio di sentirsi eroi in una situazione in cui gli adulti, tragicamente, li trasformano in automi. Ma sono piuttosto da aiutare, da accogliere, da crescere nella loro umanità, mettendo in atto progetti e coinvolgendo le istituzioni educative. Non certo da confinare in un carcere militare per farne – questa volta sì – i terroristi di domani.
Chi scrive è perfettamente cosciente della tragedia dell’occupazione, della drammaticità del conflitto israelo-palestinse, del sangue e del dolore che ha toccato ebrei (non solo con gli ultimi attentati) e palestinesi (non dimentichiamo le migliaia di morti a Gaza, l’estate appena passata). Per non parlare della follia del terrorismo di stampo islamico che sta dilagando in Medio Oriente (e che affascina con le sue sirene i giovani di quelle terre). Ma che tanti bambini debbano pagare questo ulteriore prezzo, ci sembra decisamente troppo.
(Su Twitter: @caffulli)