A Rafah, estremo confine meridionale della Striscia di Gaza, il centro El Amal da oltre vent’anni mantiene la promessa fatta dal nome che porta: amal, «speranza». La storia di questa opportunità di speranza per i disabili e per le famiglie che stanno imparando a dare le giuste opportunità ai figli con handicap. Anche grazie a un pizzico di Italia.
A Rafah, città dell’estremo confine meridionale della Striscia di Gaza, il centro El Amal da oltre vent’anni mantiene la promessa fatta dal nome che porta: amal, «speranza». Speranza per i disabili, persone ancora troppo spesso emarginate dalla società, speranza per le famiglie che stanno imparando a dare le giuste opportunità ai figli con handicap.
Rafah di per sé è lo specchio dell’assedio che Gaza subisce da otto anni: un angolo di territorio che guarda attraverso il confine con l’Egitto al mondo fuori, senza poterlo raggiungere. Durante la seconda Intifada (2000-2004), i bulldozer militari israeliani rasero al suolo quasi 500 abitazioni civili per fare spazio alla zona cuscinetto con lo Stato di Israele. Oggi, dall’altra parte della frontiera, l’Egitto fa lo stesso: sono già 800 le case egiziane distrutte.
Rafah, che negli anni passati faceva da collegamento con l’Egitto attraverso i tunnel sotterranei, vive oggi una crisi senza precedenti. Disoccupazione alle stelle, tasso di povertà in continua crescita, mancanza di fondi pubblici. A pagarne il prezzo sono i gruppi sociali più disagiati, già emarginati. Tra questi i disabili.
«Rafah è il governatorato più povero della Striscia – ci spiega Darwish Abu Jihad, direttore del centro di riabilitazione El Amal –. Molte famiglie non hanno più entrate economiche, dopo la chiusura dei tunnel e l’attacco israeliano della scorsa estate. Così tagliano dove pensano di poter tagliare: nei servizi per i figli disabili. A monte sta la concezione della disabilità che ancora pervade la società palestinese, in particolare comunità povere e marginali come Rafah: la disabilità è vista come un problema, uno stigma sociale, da nascondere».
Il nostro interlocutore incalza: «Le scuole non sono adatte ad accogliere bambini con problemi, le classi sono sovraffollate, fino a 40-50 bambini per ogni insegnante. Non sono accessibili a chi ha problemi motori e gli insegnanti non sono preparati a interagire con disabili fisici e psichici».
El Amal nasce così, sulla spinta dell’enorme divario da colmare. Erano gli anni della prima Intifada (1987-1993), quando in tutti i Territori Occupati erano i comitati popolari e di quartiere a gestire la vita quotidiana, le scuole, le cliniche, le terre: Israele, per rompere la resistenza popolare, aveva imposto la chiusura di ogni servizio. La risposta fu sorprendente: ogni membro della società, di qualunque età, classe sociale, condizione economica, prese parte all’auto-organizzazione della vita comunitaria, permettendo all’Intifada di proseguire per anni.
Successe anche a Rafah. Sulla spinta di quell’esperienza di autogestione nacque El Amal: «Prima del 1991 in tutta la Striscia esisteva un solo centro per disabili, a Gaza City – riprende Abu Jihad –. Grazie ai comitati che si occupavano dell’educazione ci rendemmo conto delle condizioni di vita dei disabili. Svolgemmo una ricerca, da soli, andando casa per casa: alla fine, contammo almeno 3.700 persone con disabilità. Non fu facile: molte famiglie negavano la presenza di un disabile per timore dell’esclusione sociale».
«Fu così – prosegue il direttore – che decidemmo di aprire un centro. All’inizio non avevamo niente, nessuno strumento né esperienza. Andavamo nelle case a convincere le famiglie a iscrivere il figlio o la figlia. Siamo partiti con 25 ragazzini. Oggi serviamo circa 800 disabili l’anno, per lo più affetti da sordità. La situazione è cambiata completamente: ora sono le famiglie a chiedere di iscrivere i figli, a premere per farli entrare nel programma».
I servizi che il Centro offre sono numerosi: dalle analisi mediche, alla scuola, ai club per giovani. Si parte dalla clinica, dove vengono offerti gratuitamente test dell’udito: «Ogni analisi medica è gratuita. Si tratta di test molto costosi, che le famiglie non potrebbero permettersi. Offriamo tutto noi e dopo il test si parte con l’inserimento del bambino nel percorso di El Amal».
La scuola ospita alunni dalla prima elementare alle superiori. Cinque anni fa il governo palestinese ha riconosciuto l’istituto e ciò ha consentito di ricevere finanziamenti pubblici e di consegnare agli studenti diplomi che aprono le porte dell’università. Alla scuola si affiancano un asilo per 250 bambini, spazi aperti (cinema, libreria, laboratorio di ricamo per donne disabili), un club giovanile autogestito dai ragazzi disabili che organizzano attività sportive, culturali, teatrali.
L’altro grande successo di quest’anno è stata l’adesione di El Amal al progetto Include, lanciato dall’ong italiana Educaid: un programma di micro finanziamento per piccole imprese di 34 donne disabili in tutta la Striscia. «Il progetto è partito nell’aprile 2014 – ci spiegano Doha e Zara, coordinatrici di Include per El Amal –. Abbiamo svolto diverse attività e formazione in gestione aziendale e media. Abbiamo poi visionato i progetti presentati dalle donne disabili e ne abbiamo scelti 34. Molti di questi sono già partiti: centri estetici e di parrucchiere, laboratori di ricamo, negozi di accessori, allevamento. Il finanziamento iniziale ha permesso loro di avviare la microimpresa che ora gestiscono in completa autonomia».
«Il progetto ha cambiato la loro vita: le donne disabili, prima escluse e marginalizzate perché considerate incapaci di assolvere ai loro compiti di madre e moglie, hanno dimostrato alle famiglie e alla società il proprio valore. Ora sono economicamente indipendenti e in molti casi sono il principale sostegno alla famiglia, dopo che molti uomini hanno perso il lavoro. È cambiata la prospettiva stessa della donna: si percepisce ora come soggetto con un ruolo sociale e comunitario, quando prima tendeva ad auto-escludersi».
È il caso di Iman al Kurd: da ottobre ha aperto un laboratorio dove produce decorazioni per i matrimoni. «Ho iniziato a produrre e ho aperto un sito web – ci racconta Iman mentre ci mostra fiori di plastica e spille da cerimonia –. In poco tempo le ordinazioni si sono moltiplicate, il mio nome ha cominciato a circolare. Mi chiamano anche dalla Giordania. Sto dimostrando a me stessa e agli altri che valgo. Il sostegno della mia famiglia è fondamentale: mia sorella e mia madre mi aiutano nella produzione, mio padre ha creato per me questo laboratorio nella sua casa. La mia più grande soddisfazione? Oggi sono io che sostengo la famiglia: mio marito ha perso il lavoro dopo che una bomba sganciata dall’esercito israeliano la scorsa estate ha distrutto il suo negozio. È il mio lavoro che permette a tutti di andare avanti. Un sogno fino a qualche mese fa».