Anche in un Medio Oriente abituato ormai a tutto, l’improvvisa escalation muscolare tra sauditi e iraniani a inizio 2016 mette paura. Non solo per il possibile inasprimento dei conflitti in corso in Siria, in Iraq e in Yemen – dove Riyadh e Teheran già si combattono usando i rispettivi alleati – ma per l’eventualità di una resa dei conti diretta tra le due potenze regionali.
Anche in un Medio Oriente abituato ormai a tutto, l’improvvisa escalation muscolare tra sauditi e iraniani a inizio 2016 mette paura. Non solo per il possibile inasprimento dei conflitti in corso in Siria, in Iraq e in Yemen – dove Riyadh e Teheran già si combattono usando i rispettivi alleati – ma per l’eventualità di una resa dei conti diretta tra le due potenze regionali, in uno scontro generalizzato, senza più margini di trattativa o di ricomposizione, tra sunniti e sciiti.
Ricapitoliamo i fatti: il 2 gennaio, il governo di Riyadh fa decapitare l’imam e leader storico dell’opposizione interna sciita, Nimr Al Nimr. Scoppia la rabbia in tutto il mondo sciita e, in Iran, gruppi di facinorosi danno fuoco all’ambasciata saudita a Teheran e al consolato a Mashad. Il Regno dei Saud interrompe tutti i rapporti commerciali e diplomatici con l’Iran, seguito a ruota da alcuni paesi del Golfo, i quali chiudono le ambasciate o riducono il personale. L’Iran blocca tutte le importazioni di beni sauditi e prolunga un recente divieto ai propri cittadini di recarsi in preghiera alla Mecca e a Medina, «per motivi di sicurezza» (il 24 settembre scorso, durante il solenne pellegrinaggio dell’hajj, 770 pellegrini, tra i quali non meno di 460 iraniani, perirono a Mina, non lontano dalla Mecca, a causa della calca; il governo di Teheran fu tra i più aspri nel criticare i sauditi, i quali non avrebbero tutelato adeguatamente l’incolumità dei pellegrini – ndr). Inoltre l’Iran accusa le forze saudite di aver bombardato l’ambasciata iraniana a Sana’a nello Yemen. La diplomazia internazionale cerca di convincere i due contendenti ad abbassare i toni, ma la situazione rimane tesa.
«Quando i sauditi hanno deciso di giustiziare l’imam Al Nimr, sapevano che qualcosa sarebbe successo in Iran. Anche se non sapevano esattamente cosa», osserva l’analista iraniano Reza Marashi.
Il momento non potrebbe essere più delicato. Teheran attende la fine dell’embargo economico internazionale, dopo l’accordo del luglio 2015 in cui ha rinunciato al suo programma nucleare, e si sta preparando per le elezioni del nuovo Majlis (Parlamento) e del Consiglio degli Esperti (l’organismo che nomina la Guida suprema) in programma il prossimo 26 febbraio; inoltre i negoziati sulla Siria sono entrati in una fase cruciale, nella quale Iran e Russia stanno giocando un ruolo determinante e di certo non gradito ai sauditi.
Il governo di Riyadh, giustiziando un imam sciita accusato solo di reati di opinione, «tenta di esportare a livello regionale le sue paure e le sue difficoltà interne», rimarca un portavoce del governo iraniano.
Non è un mistero che l’Arabia Saudita veda il riavvicinamento tra Washington e Teheran come una minaccia alla propria potenza regionale. Per di più, i costi della guerra, finora fallimentare, contro i ribelli houthi (sciiti) in Yemen e il calo del prezzo del petrolio, sul cui commercio si basa l’economia nazionale, hanno dissanguato le casse della famiglia reale. Il deficit di bilancio è di oltre 100 miliardi di dollari, e i governanti di Riyadh hanno dovuto imporre misure di austerità e tasse ad una popolazione poco propensa ad accettarle. Cosa di meglio che ricompattare gli animi contro l’odiato nemico sciita?
Dall’altra parte, l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran ha violato uno dei principi base delle relazioni internazionali, ovvero il rispetto delle sedi diplomatiche straniere; per di più non si tratta di «una prima volta», in quanto ad essere messe a ferro e fuoco furono già l’ambasciata statunitense, nel 1979, e l’ambasciata della Gran Bretagna nel 2011. «Lasciatene qualcuna da bruciare anche alle future generazioni!», scherzano sui social network i buontemponi iraniani.
Al di là delle battute, stavolta nessuno ha rivendicato l’attacco e le autorità iraniane – dal presidente della repubblica Rouhani ai Guardiani della rivoluzione – hanno espresso condanna per i colpevoli. «Volevano far deragliare la politica estera iraniana degli ultimi due anni», ha commentato il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif. Altri «incidenti» potrebbero mettere in grave difficoltà l’attuale leadership moderata iraniana che, dopo la fine dell’embargo e la riapertura dell’Iran al mondo, spera di incassare anche una vittoria elettorale.
Non è solo l’Arabia Saudita a puntare su un’esasperazione dei rapporti. Anche in Iran esiste un’ala radicale, formata da pasdaran e parte del clero sciita, schierata sulla linea del «tanto peggio, tanto meglio» e che, durante il periodo dell’embargo, ha gestito i commerci, accumulando ingenti ricchezze e consolidando una base di potere. Le prossime settimane sono cariche di insidie. A mettersi di traverso pure il Congresso statunitense, a maggioranza repubblicana, che vorrebbe nuove limitazioni all’Iran, vanificando gli accordi firmati dal segretario di Stato John Kerry. Vi è poi un altro al Nimr in attesa del boia nelle carceri saudite. È Ali, nipote dell’imam sciita, arrestato quando era minorenne con l’accusa di aver organizzato una manifestazione in favore dello zio. Se dovessero decapitarlo e crocifiggerlo, come hanno già sentenziato, le conseguenze potrebbero essere davvero catastrofiche.