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Sulla rotta balcanica: racconti da Eidomeni, al confine greco-macedone

Anna Clementi
19 gennaio 2016
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Sulla rotta balcanica: racconti da Eidomeni, al confine greco-macedone
Profughi in cammino lungo la rotta balcanica. (foto Coordinamento di Eidomeni per l'aiuto ai profughi)

Siamo in una delle strettoie della rotta balcanica, varchi nei quali le polizie europee controllano il flusso di profughi che dal sud del Mediterraneo si dirige verso l'Europa settentrionale. Da Eidomeni transitano quasi agevolmente ormai solo siriani, iracheni e afghani. Gli altri, se presi, vengono respinti verso le terre di provenienza.


Il poliziotto prende in mano il documento, lo legge attentamente, si consulta con un collega, poi scuote la testa e blocca il passaggio. Ahmed cerca di attraversare il confine, invano. Viene fermato. Si inginocchia, piange, implora, sotto lo sguardo distaccato della polizia di frontiera. Rimane immobile con gli occhi fissi a guardare quella terra a lui proibita, al di là del filo spinato. Ha le mani rivolte verso il cielo. Prega.

Da quando ha fatto il suo primo viaggio in mare, Ahmed ha perso l’uso della parola. Ma attraverso i suoi gesti, urla il dolore e la disperazione che lo stanno lacerando. Ha deciso di fuggire dal suo paese, la Libia, per evitare la stessa sorte del fratello, brutalmente decapitato dagli uomini dello Stato islamico (Isis). Inizialmente ha tentato di arrivare in Italia via mare ma, a seguito di un naufragio in cui è miracolosamente sopravvissuto, ha deciso di provare a raggiungere la Germania attraverso la rotta balcanica, la via che negli ultimi mesi ha rappresentato, per centinaia di migliaia di migranti, la principale porta di ingresso all’Europa. Turchia e Grecia all’inizio per poi proseguire verso Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e Austria.

Ma, a Eidomeni, i sogni di Ahmed sono rimasti intrappolati nel filo spinato che si attorciglia lungo la frontiera greco-macedone, le sue speranze sono state calpestate e infrante dal secco no di un poliziotto di frontiera che gli ha impedito di entrare in Macedonia solamente perché era di nazionalità libica.

Questa è la nuova politica dei respingimenti dell’Unione Europea che anche la Macedonia e la Serbia hanno iniziato ad attuare a partire dal 18 novembre 2015. Solo i SIA (siriani, iracheni e afghani) in possesso in un documento greco che ne attesti la nazionalità vengono lasciati passare. Gli altri, i non-SIA (marocchini, pakistani, iraniani, somali o libici che siano) vengono fermati, respinti, caricati nei bus e trasferiti subito ad Atene. Per loro il viaggio finisce così. In violazione dell’articolo 3 della Convenzione di Ginevra, a decidere sul loro diritto di asilo, diritto individuale di ogni cittadino, è la polizia di frontiera che apre o chiude il confine a seconda della nazionalità scritta sul documento.

Simbolo di questa tragedia politica e umanitaria è Eidomeni, una cittadina greca che segna l’inizio della rotta balcanica, a ridosso del confine macedone, che fino a novembre era un vero e proprio campo allestito per i migranti in transito e che ora, per evitare episodi di violenza da parte dei profughi respinti, è stato volontariamente trasformato dal governo greco in un semplice «posto tappa» per i profughi della rotta balcanica. Una tenda per le cure mediche affidata all’ong francese Medici del mondo, un punto di ristoro dell’organizzazione Praksis, una tenda gestita da volontari indipendenti dove vengono distribuiti vestiti: oggi Eidomeni ha questo volto.

Ogni giorno migliaia di persone scendono dai bus provenienti da Atene dopo un viaggio che può durare anche 24 ore e si dirigono di fretta verso il confine macedone. Sono uomini, donne, giovani madri, anziani, ma soprattutto bambini di ogni età. Cento metri a piedi su una stradina polverosa accanto ai binari del treno, appena il tempo di bere un po’ di acqua, di mangiare un pacchetto di biscotti, di infilarsi un cappello e un paio di guanti per affrontare il freddo dell’inverno e poi via, di nuovo, verso l’ennesimo campo, verso l’ennesimo confine.

È un flusso continuo, inarrestabile di vite umane che ci passano davanti, in fuga da un doloroso passato alla ricerca di un futuro dignitoso per sé e per i propri figli.

Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nell’intero arco del 2015 il numero di arrivi attraverso il Mediterraneo è stato di oltre un milione di persone (e di oltre 3.700 morti/dispersi in mare), di cui 850 mila sbarcati in Grecia e circa 150 mila in Italia. Nel mese di dicembre 2015, una media di oltre duemila persone è transitata quotidianamente nei paesi della rotta balcanica (Macedonia, Serbia, Croazia e Slovenia) e si prevede che questo flusso continuerà almeno per tutto l’inverno.

I più «fortunati», quelli che l’Europa ha deciso di riconoscere come rifugiati, vengono lasciati passare. Per tutti gli altri, per tutti gli Ahmed, a Eidomeni e in Europa, non c’è posto. C’è chi viene respinto ai valichi di frontiera, chi viene preso di notte mentre cerca di attraversare il confine nei boschi, chi viene fermato dalla polizia mentre cammina in territorio macedone nella speranza di raggiungere la Serbia.

Li vediamo passare a gruppi, in direzione opposta al flusso principale, scortati dalla polizia, con lo sguardo basso e il volto segnato, consapevoli del destino che li attende.

Un poliziotto si avvicina ad Ahmed e gli intima di alzarsi. Viene portato via così, verso i bus, verso Atene, nuovamente. Per lui il viaggio verso la Germania sarà ancora molto lungo.

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