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Radiografia di un vocabolo scomodo

Giulia Ceccutti
7 aprile 2025
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Radiografia di un vocabolo scomodo

Questo libro si rivela uno strumento agile e valido per un approccio critico sull’uso, la strumentalizzazione, il potere del concetto di antisemitismo/antisemita. Lo stile diretto aiuta a comunicare contenuti spesso tutt’altro che semplici.


Al centro dell’ultimo libro di Valentina Pisanty – semiologa, docente all’Università di Bergamo – c’è il vocabolo «antisemita». il suo significato, gli usi pubblici che ne sono stati fatti, gli effetti che tali usi hanno prodotto nel passato e nel presente. Il tema, come chiarito fin dalle prime pagine, è estremamente complesso, scivoloso, sfaccettato. L’antisemitismo (posto a tema di non poche pubblicazioni negli ultimi anni – ndr) è un fenomeno, a detta dei suoi stessi studiosi, «proteiforme e sdrucciolevole».

Questo volume comincia col ripercorrere la storia del termine antisemita – introdotto per la prima volta nelle varie lingue europee verso la fine dell’Ottocento (la prima occorrenza risale al neologismo tedesco Antisemiten) – per arrivare alla distinzione tra vecchio e nuovo antisemitismo, e quindi alla loro analisi.

Si approfondisce inoltre lo stereotipo dell’«Eterno Ebreo», il quale a sua volta comprende un vasto repertorio di stereotipi con secoli di storia alle spalle («l’Ebreo deicida, l’Ebreo avvelenatore, l’Ebreo sanguisuga, l’Ebreo parassita, l’Ebreo usuraio, l’Ebreo apolide, l’Ebreo capitalista, l’Ebreo bolscevico, l’Ebreo imboscato, l’Ebreo traditore…»). Per Pisanty il ritratto dell’Eterno Ebreo (attualmente rintracciabile nei siti negazionisti, sui social media e nei discorsi di alcuni politici) è rimasto stabile fino ad oggi.

Un elemento di novità, invece, che compare nel discorso pubblico e politico a partire dagli anni Duemila, è quello dell’equazione che identifica l’antisemitismo con l’antisionismo. Tale equazione porta con sé una nuova definizione della parola antisemita. Nell’ipotesi documentata dall’autrice la fusione acritica tra antisemitismo e antisionismo ha come primo beneficiario il governo israeliano, al quale «fa gioco una definizione operativa che, senza eccessive sottigliezze, accorpi in un’unica categoria criminale – l’Eterno Antisemita – ogni avversario politico passato o presente». Pisanty continua: «La realizzazione del progetto è andata di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni. La mia ipotesi è che i due fenomeni siano strettamente interrelati. Non solo nel senso che la ridefinizione della parola antisemita è compatibile con le ideologie dei partiti ultranazionalisti in ascesa, ma anche che tra quei partiti e lo Stato di Israele è in corso da tempo un macroscopico scambio di favori. I termini dell’accordo sono semplici: supporto incondizionato alle politiche delle destre israeliane contro l’immunità da ogni accusa di razzismo e antisemitismo».

La trattazione – puntuale e dettagliata, come testimoniato anche dai riferimenti bibliografici e dalle note poste alla fine del volume – si sofferma poi in particolare sulla Working Definition del termine «antisemitismo» presentata nel 2016 dall’International Memorial Holocaust Alliance (Ihra). La esamina punto per punto, evidenziando delicatezza e problematicità di alcuni degli esempi proposti. Presenta anche il complesso, controverso e poco conosciuto, iter successivo di tale definizione.

Vengono infine approfonditi, tra gli altri, due esempi tratti dalla politica recente. Il primo tocca il Partito laburista inglese, con la cosiddetta campagna «anti-Corbyn» – Jeremy Corbin è stato leader dei laburisti britannici dal 2015 al 2020 –, incentrata sull’accusa di antisemitismo rivolta in primo luogo all’uomo politico e poi all’intero partito. Il secondo riguarda il caso della Germania, le cui politiche della memoria degli ultimi vent’anni (e quindi la definizione di antisemitismo) «hanno assunto i tratti di una religione di Stato, man mano che il trauma progressivamente riscoperto dell’Olocausto ha fatto le veci del potere costituente dopo l’unificazione del 1989».

In sintesi, il libro si rivela uno strumento agile e valido per porsi domande e per un approccio critico sull’uso, la strumentalizzazione, il potere della parola in esame. Lo stile diretto, a tratti colloquiale e ironico (basti, a titolo d’esempio, la definizione dei social media come spazio «dove notoriamente la gente dà il meglio di sé»), aiuta a comunicare concetti spesso tutt’altro che semplici.

La conclusione è amara e suona come un campanello d’allarme: «Mentre spianano la strada alle destre in ascesa, gli usi strumentali della parola antisemita indeboliscono la posizione di chi si preoccupa per davvero della ripresa dell’antisemitismo nel contesto contemporaneo. A forza di ribadire che antisemitismo e antisionismo sono la stessa cosa, si finisce per togliere peso e gravità al primo dei due termini. Se, come vuole la nuova definizione, antisionismo è solo un altro modo per dire antisemitismo, allora si potrebbe pensare che non vi sia niente di male a essere antisemiti. Lo si è visto sui social nei lunghi mesi dell’assedio di Gaza. In alcuni casi, che non saprei quantificare, la parola ebreo ha ricominciato a essere impiegata come un epiteto (“XY, ebreo triestino pericoloso propagandista sionista”), mentre antisemita si è parzialmente smarcata dalle sue connotazioni negative (“se antisemitismo significa stare dalla parte dei palestinesi, ebbene sì, sono antisemita”). Fin dove potrebbe spingersi questa deriva?».

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