Entro qualche mese scadrà formalmente l’accordo sul nucleare iraniano, conosciuto come Piano d'azione globale congiunto (Jcpoa), firmato dieci anni fa da una serie di attori internazionali. Molto è cambiato da allora. Cosa si profila all'orizzonte?
Il 2025 si profila come un anno decisivo per la sicurezza globale. Entro la fine dell’anno scadrà formalmente l’accordo sul nucleare iraniano, conosciuto come Piano d’azione globale congiunto (Joint Comprehensive Plan of Action – Jcpoa), firmato nel 2015. Nonostante il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nel 2018, ai tempi del primo mandato presidenziale di Donald Trump, il Jcpoa è rimasto in vita grazie agli sforzi diplomatici di altri firmatari, tra cui l’Unione europea. Ma ora? Con l’approssimarsi della scadenza dei termini, le incertezze e le sfide sono molteplici. E la posta in gioco è alta.
Sembra chiaro che senza un nuovo accordo o una rimodulazione dell’attuale, l’Iran potrebbe decidere di accelerare il proprio programma nucleare, come già avvenuto dopo il ritiro degli Stati Uniti. La situazione che il Paese degli ayatollah vive, segnato da attacchi aerei israeliani e dal «peso» del conflitto in Gaza (ricordiamo che Hamas è iscritto nella compagine pro-Iran conosciuta come Asse della resistenza), ha minato la capacità di deterrenza dell’Iran e messo in evidenza le vulnerabilità della sua posizione geopolitica. Gli accordi vigenti prevedono un meccanismo che consente di ripristinare automaticamente le sanzioni internazionali contro l’Iran nel caso in cui non adempia agli impegni presi sul nucleare (sono le cosiddette «sanzioni snapback», che riguardano soprattutto il blocco delle transazioni economiche e delle esportazioni di beni strategici). Il ritorno alle sanzioni nei settori bancari e dell’import-export rischia di indebolire gli strumenti di pressione su Teheran. E di riaprire la corsa al nucleare.
Il contesto è ulteriormente complicato dalla crescente instabilità regionale e dalla politica estera aggressiva degli Stati Uniti. La recente intensificazione delle sanzioni volute dal nuovo inquilino dalla Casa Bianca ha solo aggravato le relazioni, portando a un aumento della frustrazione a Teheran, dove cresce la frangia di chi spinge per riprendere il programma nucleare come forma di deterrenza.
In particolare, gli Stati Uniti hanno recentemente deciso di non rinnovare una deroga concessa nel 2018, che permetteva all’Iraq di acquistare elettricità dall’Iran. La decisione di Washington, finalizzata a «garantire che l’Iran non riceva aiuti economici o finanziari», ha avuto un forte impatto sulle relazioni tra i due Paesi. In risposta, il ministro degli Esteri iraniano, Seyed Abbas Araghchi, ha ribadito che il programma nucleare dell’Iran è sempre stato e continuerà ad essere «del tutto pacifico» e che Teheran non negozierà mai sotto «pressione e intimidazione».
Le prese di posizione sopra esposte mettono in evidenza la difficoltà di ogni eventuale negoziato: l’Iran, da parte sua, non vuole essere costretto a cedere sotto minacce economiche o politiche, tanto più dopo le dichiarazioni minacciose di Trump che ha, di fatto, ripristinato la politica di «massima pressione», con lo scopo di minare l’economia iraniana e isolarla diplomaticamente. La guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha già denunciato questa politica di «intimidazione», considerando inaccettabili le minacce di intervento militare.
L’Iran ha già ampliato considerevolmente le sue scorte di uranio altamente arricchito, rendendo la situazione ancora più critica. La questione risulta evidente nel rapporto trimestrale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che poche settimane fa ha confermato che le riserve iraniane sono ora 40 volte superiori al limite consentito dal Jcpoa. Un segnale chiaro che Teheran sta sviluppando la capacità di produrre armi nucleari.
In un panorama di crescente isolamento internazionale e di un’economia in forte difficoltà, l’Iran sembra propenso a negoziare, perché l’obiettivo è ottenere un alleggerimento delle sanzioni e un maggior respiro economico, senza però piegarsi alla politica intimidatoria degli Stati Uniti.
Intanto, in un periodo già denso di riposizionamenti sullo scenario geopolitico, il 14 marzo a Pechino Cina, Russia e Iran hanno tenuto «discussioni approfondite» sul dossier nucleare iraniano, al termine delle quali hanno ribadito «l’importanza di porre fine a tutte le sanzioni unilaterali illegali». Mosca e Pechino, già parte del cosiddetto gruppo «5+1» (i sei Paesi coinvolti nel 2015 nelle negoziazioni sul programma nucleare iraniano: Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti più la Germania) hanno ora avviato un dialogo con la parte iraniana senza i partner occidentali. Pechino, in questo contesto, si è schierata con chiarezza al fianco dell’Iran, sottolineando la necessità di rispettare il diritto di Teheran «a usi pacifici dell’energia nucleare».
E l’Europa? In questo contesto può giocare un ruolo cruciale il cosiddetto E3 (Francia, Germania e Regno Unito). Fin dal 2003, l’Europa ha mediato tra gli Stati Uniti e l’Iran, cercando di evitare un’escalation militare e garantendo una maggiore stabilità regionale. Nonostante la ritirata degli Stati Uniti dal Jcpoa nel 2018, l’Europa ha cercato di mantenere vivo l’accordo, lavorando per evitarne il collasso totale. Ora l’Europa si trova di fronte a un bivio: rimanere marginale nelle trattative, lasciando il campo a Stati Uniti e Russia (la questione Ucraina docet), oppure tornare a giocare un ruolo. I legami con l’Iran si sono indubbiamente deteriorati negli ultimi anni, soprattutto a causa del supporto iraniano alla Russia nel conflitto con Kiev e alle crescenti tensioni sul piano militare. Tuttavia, se l’Europa vuole evitare che la situazione possa imboccare la strada pericolosissima di una crisi nucleare o, peggio, di un conflitto aperto, è necessaria un’azione rapida e coordinata.
Gli incontri già avvenuti tra i rappresentanti europei e iraniani indicano che, nonostante le difficoltà, esiste ancora un margine per il dialogo. Il compito dell’Europa è ora quello di stabilire un percorso chiaro per rilanciare i negoziati, trovare il giusto equilibrio tra incentivi e misure di verifica, e, soprattutto, costruire una rete di consenso regionale che coinvolga anche Israele e i Paesi del Golfo.
Come dice l’adagio, tempus fugit. L’orizzonte temporale è l’ottobre prossimo. In mancanza di un accordo, la strada è quella di un’ulteriore instabilità in Medio Oriente (Siria, Israele, Libano in testa), con gravi ripercussioni anche per la sicurezza dell’Europa.