Sono tempi duri in Israele e Palestina per chi non rinuncia a propugnare il dialogo tra i due popoli e a contestare la logica della guerra. Eppure queste voci trovano anche nuovo ascolto, ci racconta Sulaiman Khatib, dell'associazione Combatants for peace.
«La guerra non porterà pace o libertà a nessuno, né sicurezza. Questa è la nostra esperienza personale: alla fine, l’unica soluzione è quella politica. È ciò che sosteniamo da anni. Per questo i miei partner israeliani nei giorni scorsi sono scesi in piazza, di nuovo, a manifestare per le strade di Tel Aviv e Gerusalemme. Chiediamo di tornare al cessate il fuoco, chiediamo una soluzione politica e il rilascio degli ostaggi».
Dall’altra parte dello schermo, un bicchiere di tè in mano, Sulaiman Khatib ci parla dalla sua casa di Ramallah. Palestinese, è co-fondatore di Combatants for peace (Cfp), movimento composto da israeliani e palestinesi che hanno scelto la strada della nonviolenza.
Sulaiman, cinquantatré anni appena compiuti, a quattordici anni è finito in carcere in Israele, dove ha trascorso dieci anni. Ha raccontato la sua storia nel libro In This Place Together: A Palestinian’s Journey to Collective Liberation, scritto insieme a Penina Eilberg-Schwartz (Beacon Press, 2022).

Sulaiman Khatib (foto Cfp)
«L’anno prossimo Cfp compirà vent’anni, l’abbiamo fondata nel 2006». Sulaiman sceglie di partire da qui. «Alcuni dei fondatori erano ex soldati israeliani che si rifiutavano di rimanere nell’esercito ed ex prigionieri palestinesi, come me». Vent’anni, un susseguirsi di guerre attraversate insieme. L’ultima, la più devastante. Con Sulaiman proviamo a ripercorrerla e, di lì, a ragionare sul futuro.
• Che cosa ha rappresentato questa guerra per Combatants for peace?
Come organizzazione congiunta che lavora per la nonviolenza, dal 7 ottobre 2023 in poi Cfp è stata «sfrattata» dal discorso pubblico. Naturalmente, come molti altri gruppi che vedono israeliani e palestinesi lavorare insieme, non facciamo parte della mentalità dominante. Ma noi abbiamo deciso di continuare lo stesso il nostro lavoro. Anzi lo abbiamo aumentato, organizzando in primo luogo diversi incontri interni.
• Riuscite a incontrarvi di persona con i vostri membri israeliani?
Ogni due settimane ci incontriamo nel nostro ufficio di Beit Jala, vicino a Betlemme. I palestinesi non hanno il permesso di entrare in Israele, così sono gli israeliani a venire qui. Per il resto, ci parliamo online.
• Alcuni dei vostri attivisti hanno lasciato l’organizzazione durante questa guerra?
Sì, in realtà non molti. La maggior parte degli attivisti è rimasta con noi. Quelli che hanno lasciato hanno smesso di credere nel nostro lavoro o perso la speranza. Alcuni israeliani hanno avuto persone care uccise durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, mentre alcuni palestinesi hanno avuto vittime a Gaza. Due membri che vivono in Cisgiordania hanno perso un gran numero di familiari. Ma in generale, rispetto ad altri gruppi, Cfp è rimasto unito. Di più, la nostra voce è diventata più forte rispetto a prima, approdando anche su media mainstream stranieri (tra cui Cnn, Bbc, una tivù nazionale tedesca, Al Jazeera e altre) e, in misura minore, su alcune testate locali.
• Su cosa state concentrando le attività?
Dal 7 ottobre in poi abbiamo adattato i programmi alla situazione. Lo scenario infatti è diventato molto più complesso non solo nel sud di Israele e a Gaza, ma anche in Cisgiordania. Da quando è iniziata la guerra, la violenza dei coloni israeliani, appoggiati dal governo, è cresciuta in modo considerevole. Anche qui attualmente viviamo, di fatto, in uno stato di guerra. Nei mesi scorsi, siamo riusciti comunque a svolgere alcune attività sul campo, come la piantumazione di ulivi e alberi, portando solidarietà ai palestinesi delle comunità sotto attacco nell’Area C. Abbiamo anche organizzato alcune manifestazioni nonviolente contro la guerra. La parte israeliana dell’organizzazione, come ricordato, sta partecipando alle proteste a Gerusalemme e Tel Aviv contro la ripresa della guerra.
Parallelamente portiamo avanti anche altri progetti, come ad esempio la Scuola della libertà (Freedom School). È un programma che raccoglie, sia in Israele che in Palestina, gruppi di giovani e che lavora – attraverso lezioni, laboratori, visite – sulla consapevolezza del conflitto, dell’occupazione, dell’identità e dell’attivismo di base. È inoltre uscito di recente un nuovo docu-film sul movimento: There is Another Way. È di un produttore americano; sta girando in diversi Paesi ed è stato da poco presentato al Festival del film e forum internazionale sui diritti umani di Ginevra. Racconta la storia dell’organizzazione ma soprattutto vuole mostrare che esiste un’altra via, altre possibilità.
• Con quali realtà collaborate?
Facciamo parte di diverse reti di attivisti a livello locale e internazionale. Le principali sono l’Alleanza per la pace in Medio Oriente (Alliance for Middle East peace – Allmep), una rete costituita da quasi 170 gruppi, e la Jordan Valley Coalition, che si occupa di dare aiuto e protezione dagli attacchi dei coloni ai pastori e agricoltori nella Valle del Giordano.
• Quali sono i vostri prossimi progetti?
Insieme al forum di famiglie Parents Circle stiamo lavorando alla ventesima Joint Memorial Day Ceremony, che si terrà il 29 aprile prossimo in diverse città e online. Si tratta di una cerimonia congiunta israelo-palestinese cui ogni anno partecipano migliaia di persone. Si svolge in concomitanza con il giorno in cui Israele commemora i caduti di guerra e le vittime del terrorismo, e si propone di includere in questa memoria anche le vittime palestinesi del conflitto.
• Con la guerra, com’è cambiato il rapporto con le vostre comunità di appartenenza?
Non è semplice. I nostri attivisti ebrei vengono definiti «non più israeliani»; vengono criticati online, per strada, nella loro comunità. Da parte palestinese, invece, alcuni ci accusano di voler «normalizzare» il conflitto. Ma va anche detto che durante questa guerra sempre più persone, da entrambe le parti, si sono rese conto che – come diciamo sempre proprio in quanto ex combattenti – non esiste una soluzione militare. Le persone, soprattutto in un quadro di violenza, cercano la sicurezza e la pace. Pertanto, in un certo senso, mi sembra che questo tipo di lavoro sia più accettato dalle nostre comunità.

Una giovane attivista con due pianticelle d’ulivo da mettere a dimora. (foto Cfp)
• Come vedete il futuro dei vostri due popoli? Credete sia percorribile la soluzione dei due Stati?
Prima di rispondere, sottolineo una premessa a mio avviso necessaria. Noi crediamo nella possibilità di un futuro diverso in questa terra, altrimenti non faremmo ciò che facciamo. Inoltre sappiamo che il nostro conflitto non è l’unico. Certo ha le sue caratteristiche intrinseche, ma nel mondo vi sono numerosi conflitti e anche conflitti che sono stati superati, trasformati. Pensiamo solo al Sudafrica: prima del crollo del regime di apartheid, nessuno credeva che sarebbe crollato. Lo stesso vale per altri Paesi. È importante mantenere questa posizione di ottimismo, nonostante oggi sembri fuori luogo. È anche molto importante dire che il nostro lavoro non è solo per la nostra generazione. È una lotta lunga, un lungo viaggio.
Rispetto al futuro, all’interno dell’organizzazione vi sono opinioni differenti. Anni fa, si credeva ancora nella soluzione dei due Stati, ma negli ultimi anni, con l’aumento del numero degli insediamenti e via di seguito, le persone sono diventate favorevoli a soluzioni diverse. Alcuni di noi ora sostengono l’idea che prende il nome di «Due Stati, una patria» (Two States, One Homeland). È un’iniziativa che personalmente mi vede favorevole. Non è la classica soluzione dei due Stati, né quella di un unico Stato democratico. È una sorta di via di mezzo. Inoltre, in generale, Cfp sostiene il diritto all’autodeterminazione per tutti i popoli, in questa terra e non solo.
• È ancora possibile ricostruire la fiducia?
Non sono un ingenuo. So che non possiamo passare di colpo dai massacri che stanno avvenendo ora a Gaza, dal controllo che c’è in Cisgiordania, dai traumi che anche gli israeliani stanno vivendo, alla piena fiducia.
C’è un trauma generazionale da entrambe le parti che va in primo luogo riconosciuto. Sono consapevole del fatto che non siamo chiamati a passare da un trauma generazionale durato quasi ottant’anni a un rapporto immediato di amore e fiducia. E so che ci vogliono grandi sforzi da compiere prima. Ma se c’è la volontà, si può andare avanti. Là fuori ci sono sufficienti soluzioni possibili. Alla fine siamo persone, esseri umani, e se siamo connessi tra noi possiamo scegliere la nostra umanità: possiamo scegliere la vita anziché la guerra e la morte. È questo ciò che chiediamo alle persone di fare: stare dalla parte della vita piuttosto che dalla parte della morte.

In poche parole: Restiamo umani! (foto Cfp)
• Quali sono i passi necessari da compiere?
Abbiamo bisogno di un enorme processo di ri-umanizzazione reciproca. In questa terra, da entrambi i lati c’è una profonda disumanizzazione. Credo che l’importanza della nostra organizzazione stia nel dimostrare che tutto questo è possibile: la collaborazione, la fiducia, l’umanizzare l’altro è possibile. La rete di Cfp si è faticosamente costruita ed è cresciuta nel corso di questi vent’anni, nonostante le guerre e gli equilibri difficili. E il nostro può essere un modello per i due popoli. Sembra un sogno, ma credo sia un sogno legittimo. Perché, nella realtà concreta, entrambi i popoli non lasceranno in alcun modo questa terra.
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