«L’autore ha trascorso lunghi periodi all’American Colony. E ha sempre pagato il conto». Nelle ultime due righe di questo libro di recente pubblicazione – a metà tra il saggio e il reportage, con il ritmo avvincente di un romanzo – c’è molto di quello che il lettore ha incontrato nelle oltre 400 pagine precedenti: la conoscenza diretta e una chiave ironica, spesso presente nelle espressioni lapidarie, fulminanti.
Attraverso le vicende del celebre albergo di Gerusalemme, l’American Colony, l’inviato speciale del Corriere della Sera Francesco Battistini ripercorre un secolo e mezzo di storia, a partire dalla prima sede dell’hotel tra le viuzze della città vecchia, fino a quella attuale, nel quartiere di Sheikh Jarrah, nei quartieri arabi orientali, per allargare lo sguardo all’intera città e poi a Israele e alla Palestina. Lo fa, come dichiarato, anche grazie alla consultazione di documenti, testimonianze, interviste, voci registrate in occasioni pubbliche, dichiarazioni riprese dai media.
Oggi struttura ricettiva di lusso dai prezzi stellari, l’American Colony – racconta ridendo un ebreo di Manchester che qui lavora dal 1982 – «a molti ebrei non piace, ma il bello è che non piace nemmeno a molti arabi!». La ragione è che «non ha mai cancellato, rimosso, truccato nulla della storia di Gerusalemme». Dunque, aggiunge, «chi non ama questo luogo, è perché non ne conosce la filosofia. Se la conoscesse davvero, forse sarebbe peggio. E ci detesterebbe di più. La neutralità, l’oggettività, l’imparzialità oggi non vanno di moda. Non è l’epoca giusta per chi non vuole stare né di qua, né di là. (…) Si possono anche chiudere gli occhi e dire che no, la neutralità non esiste. E che in Israele e in Palestina si deve soltanto combattere contro qualcuno».
Posto letteralmente in prima linea, anche per la sua posizione proprio di fianco alla Linea Verde che dal 1949 divise in due Gerusalemme, il Colony ha accolto, negli anni, una lista sconfinata di personaggi di spicco: da Lawrence d’Arabia a Wiston Churchill, da Mark Twain alla scrittrice Selma Lagerlöf, fino a John Kerry, Tony Blair, Bob Dylan… Passando per uno scatenato Rudolf Hess, futuro gerarca nazista, che qui combinava disastri da bambino. Questo solo per fare alcuni nomi tra i più noti.
Leggendari i vissuti, a tratti tragici, della famiglia dei fondatori, gli Spafford, segnata dal carisma, che emerge con chiarezza, delle figure femminili di Anna e Bertha. Affascinanti gli inizi della piccola colonia di presbiteriani americani e pellegrini svedesi, con l’avvio delle opere caritative collegate al primo ostello: una scuola, un’infermeria, un negozio, un laboratorio.
È all’American Colony che, ai tempi della dominazione turca, viene installato il primo telefono di Gerusalemme. Da qui, nel dicembre del 1917, venne preso in tutta fretta un lenzuolo per farne la bandiera bianca da sventolare durante la resa degli ottomani agli inglesi. Qui, nella camera 16, nel 1992 si svolsero per mesi, in segreto, i primi colloqui che portarono agli Accordi di Oslo nel 1993, e che valsero all’albergo l’appellativo di hôtel de la paix. Rileggere, oggi, cosa furono quegli anni, pur con tutta la lucidità disincantata dell’autore, fa davvero riflettere: «Una delle cose più belle che ricordo di quel periodo», racconta ancora Jeremy, «sono i piccoli scout palestinesi. (…) Venivano fin dentro il nostro cortile. Marciavano con la banda e cantavano canzoni arabe. Che meraviglia! (…) Gli arabi e gli ebrei si guardavano, finalmente! Avevamo firmato un trattato di pace, evviva, e si poteva venire a Gerusalemme a cantare canzoni palestinesi, sventolare bandiere palestinesi! Pensavamo tutti: è un sogno».
La forza della narrazione risiede senza dubbio nello stile agile, accattivante, e nell’accostamento, segnalato attraverso l’uso del corsivo, di piani temporali sfalsati. D’altronde, come recita una filastrocca canticchiata dalle balie musulmane, «a Gerusalemme un giorno vale mille giorni, un mese mille mesi, un anno mille anni». Così, alle vicende dell’American Colony, che seguono un ordine cronologico, s’intercalano altri momenti del passato e la nostra tragica attualità, con ciò che è successo dal 7 ottobre 2023 in poi.
Sono molteplici anche le storie poco note, o poco conosciute per intero, che il testo svela. Tra queste la vicenda di Juliano Mer-Khamis – l’artista israeliano, ucciso nel 2011, che fondò tra i profughi di Jenin il Teatro della Libertà – o quella dell’attivista italiano Vittorio (Vik) Arrigoni assassinato a Gaza nello stesso anno; o ancora di Naji al-Ali, il “papà” di Handala (in arabo: amarezza), il bambino disegnato sempre di spalle, in oltre 40 mila vignette, e divenuto l’icona dell’orgoglio palestinese. Il vignettista venne ucciso a Londra nel 1987, poco prima dello scoppio della prima Intifada: era scomodo sia per le critiche a Israele sia, e soprattutto, per quelle alla dirigenza palestinese e ai regimi arabi.
In conclusione, Jerusalem Suite è un testo appassionante; perfetto per chi desidera immergersi nella luce di Gerusalemme e perdersi nelle giravolte dell’intricata, dolorosa, storia dei due popoli.
Francesco Battistini
Jerusalem Suite
Un hotel in prima linea
tra Israele e Palestina
Neri Pozza, 2024
pp. 432 – 22,00 euro