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Beirut, araba fenice

Riccardo Cristiano
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Beirut, araba fenice
Beirut, estate 2024: davanti agli scogli di Raouché si levano i palazzi moderni in una delle più simboliche immagini della capitale libanese. (foto Ali Chehade Farhat/Shutterstock.com)

La capitale libanese, cinquant’anni dopo l’inizio della guerra civile, segnata negli anni recenti da molteplici crisi, vede aprirsi prospettive nuove. Un giornalista che l’ha frequentata per decenni racconta il senso di una metropoli unica: araba, occidentalizzata, mediterranea.


Frequento Beirut dai tempi in cui cominciò ad apparire evidente che la guerra civile volgeva davvero a termine. Arrivavano gli anni Novanta. Alloggiai in uno dei pochissimi alberghi rimasti aperti, nel cuore del cosiddetto versante musulmano della città, Hamra. Ma a pochi passi da noi, sulla strada principale, si notava evidente una grande chiesa e gran parte del quartiere era occupato dall’Università Americana, bellissima, la vecchia università fondata dai missionari protestanti. E così ogni volta che penso a Beirut torno lì, nel reticolo di parallele e perpendicolari di Hamra, un impianto urbano familiare per un europeo, e mi chiedo se sia questo ambiente familiare in un contesto diverso a rendere Beirut per un europeo affascinante.

Non può essere la devastazione che ho visto anni fa ad attrarmi e ho la consapevolezza che non è più una città bella, come tutti dicono che fosse, prima dell’inizio della guerra civile cinquant’anni fa. Dovrei invece definirla invivibile, visto che non c’è un piano regolatore e così, ogni volta che ritorno, constato che una vecchia, affasciante casa di pietra, di quelle a due piani, ha lasciato il posto a un rozzo palazzo di almeno dieci piani e che è difficile anche trovare del verde in città, magari un piccolo parco urbano dove passeggiare o sostare all’ombra degli alberi. Un luogo dove i beirutini possano portare i bambini a giocare non c’è. Ma il fascino delle città deriva probabilmente dalle storie passate, dagli incontri avuti o raccontati nei romanzi, o nei libri di storia, o dalle persone che vi conosciamo e che desideriamo tornare a incontrare.

Beirut è un luogo evocativo di storie che appartengono alla nostra memoria collettiva, anche se ormai le abbiamo rimosse, come se quel passato che ha riguardato chiunque vivesse negli anni Ottanta o Novanta non ci riguardasse più. Eppure, hanno ancora molto da dirci luoghi come Ayn al-Rummana, il sobborgo dove lo scontro tra guerriglieri palestinesi e miliziani cristiano-falangisti il 13 aprile 1975 diede inizio alle macabre danze della guerra civile; il campo profughi di Sabra e Shatila, dove ebbe luogo (nel 1982) il più noto eccidio di palestinesi, non l’unico; il centro in macerie, quasi presagio di ciò che sarebbe accaduto poi in tanti luoghi del Medio Oriente.

Tutto questo non ha riguardato solo i libanesi, ma ha messo in crisi il Levante, la vita cosmopolita del Mediterraneo. Chi a Beirut ha vissuto quegli anni oggi per me è un pezzo di memoria del Mediterraneo che fu. E a volte una bussola per riuscire a rifarlo.

Il Nuovo Orientale

La tesi più interessante che ho sentito al riguardo è che la guerra civile appena cominciata fosse diventata una guerra rivolta contro il centro di Beirut. I falangisti, miliziani cristiani che qualcuno sostiene che avessero sovente la decalcomania della Vergine Maria sui calci dei loro fucili, volevano togliersi dai piedi quello stile architettonico che ho sentito chiamare «Nuovo Orientale», caratteristico del centro cittadino, creato dagli ottomani per far incontrare stile orientale e novità europee. Corredava quel centro, un po’ liso, promiscuo, inserendo in uno spazio urbano arabo tradizionale, con il classico reticolo di stradine, le novità europee, come i palazzi con affaccio, finestre, che sviluppava la novità ottocentesca: le famose finestre a tre archi gotici di Beirut.

Quello di quei miliziani cristiani, per i miei amici cristiani ma di diverso parere, era un astio autolesionista, perché la novità, ottomana, fu favorita proprio dai missionari che si insediarono fuori dal vecchio centro, sulle colline oggi urbane e circostanti la vecchia città, rendendo necessari quei viali di collegamento con il centro, viali che si fecero larghi e che hanno portato poi alla novità dei palazzi con affacci, le finestre sulla strada, primo segno di vita comune, al di là delle proprie mura domestiche, e quindi con l’illuminazione stradale, e poi il porto, i commerci, il sistema integrato di comunicazione con l’Europa e con l’entroterra, fino a Damasco.

Il municipio di Beirut, costruito in stile eclettico un secolo fa. (foto Stock Photos 2000/Shutterstock.com)

Sì, quel centro miracolosamente ricostruito sebbene in modo per me troppo patinato, troppo per ricchi, una dimensione che non era la sua, è il primo «amico» che desidero andare a reincontrare a Beirut. Con tutti i suoi limiti – come i suq oggi chiusi, coperti, dotati di potenti condizionatori, più simili a shopping mall che ai vecchi mercati d’Oriente – questo centro urbano è l’indicatore di un Mediterraneo cosmopolita, quindi ambiguo, e per questo ancora possibile.

Quando c’è pace a Beirut, cioè non di sovente, quel centro si popola, torna il quartiere di tutti, l’anima comune di un vero Paese. Sebbene rifatto per ricchi, conserva l’indispensabile stile ibrido, lo stile di una città araba, occidentalizzata, mediterranea, come l’ha definita con la sua brillantezza di raffinato intellettuale Samir Kassir.

Una sfida all’identitarismo

La guerra, dunque, che presto coinvolse tutti, fu una guerra al centro promiscuo, ambiguo. Per questo Beirut mi ha sempre riguardato, perché senti che aveva ragione Kassir nel definirla una città «strana ma araba, araba ma strana». Ho sempre visto nella sua ricostruzione una sfida urbana alle comunità chiuse, all’identitarismo che soffia dalla montagna. Ricostruire, in modo certamente discutibile, il centro di Beirut, è stato l’enorme contributo che Rafiq Hariri (primo ministro per dieci anni tra il 1992 e il 2004) ha dato al dialogo interreligioso. Li ricordo bene gli anni della fiducia nel futuro, dopo il ritiro israeliano dal sud del Paese, quando si cominciava a dire che allora anche i siriani avrebbero dovuto tornarsene in Siria: il centro di Beirut era ogni sera pieno di cristiani, sunniti, sciiti. Arrivavano dai loro quartieri confessionali in quello spazio che era una sfida a tutte le narrative isolazioniste, contrapposte l’una all’altra.

Non vado, dunque, a Beirut perché è bella, ma perché è un patrimonio mediterraneo di un dialogo che unisce i diversi, senza volerli omologare, ma evitando che si separino su sentieri contrapposti, montani, chiusi all’altro. Dopo il 2005, quando furono uccisi Rafiq Hariri, Samir Kassir e tanti altri, ho constatato che a distruggere a tappe il centro di Beirut è subentrato, dopo i contrapposti miliziani, l’unilateralismo totalitario di Hezbollah: prima hanno ucciso l’uomo che l’aveva ricostruito e tanti intellettuali soprattutto cristiani, poi, nel 2007, hanno posto il centro urbano sotto assedio, impedendo che la sua rinascita seguitasse a offrire un polmone comune a tutte le diverse appartenenze, quindi hanno fatto del suo porto commerciale una santabarbara segreta, riempita di un quantitativo impressionante di esplosivo che puntualmente, il 4 agosto 2020, è saltato in aria, portandosi via, con duecento morti e settemila feriti, il porto e tanti quartieri, in buona parte cristiani. Il porto di Beirut è stato la storia di come il Levante non fosse un’impresa coloniale, ma l’autoproduzione orientale di uno spazio multiconfessionale arabo, occidentalizzato, mediterraneo.

Prospettive nuove

Ora, finalmente, Hezbollah e il suo disegno di sostituirsi allo Stato con la sua dimensione miliziana e teocratica sta svanendo, anche se tenta di seguitare a imporsi: se fallisce sarà una liberazione, soprattutto, è auspicabile, per la comunità sciita, dove pian piano diverrà possibile, spero, che sciiti esprimano anche teologie non khomeiniste, e il khomeinismo di chi rimane teocratico possa esprimersi, in quanto parte ormai ineliminabile del Libano, però senza armi, ma con idee da offrire al Paese.

L’American University di Beirut, fondata nel 1866. (foto Shutterstock.com)

Perché questo avvenga, Beirut deve tornare forza propulsiva. Questa forza a mio avviso si dimostra possibile con il nuovo governo da poco costituito dal nuovo presidente della Repubblica Joseph Aoun e dal neopremier Nawaf Salam. Un governo indipendente dai vecchi «signori feudali», che dai tempi della guerra civile si sono impossessati della rappresentanza di tutte le comunità, uniti nell’eternizzazione di sé e dalla propria dimensione di feudatari che si spartiscono il bene comune a proprio esclusivo vantaggio. Il nuovo governo rimane fedele alla rappresentazione di tutte le comunità, ma non più a mezzo di vassalli designati dai signori dell’uno o dell’altro campo. Ora il governo è fatto da sunniti, sciiti, cristiani, drusi, ma scelti per le loro qualità, gli studi, le competenze, da queste sorprendenti novità che sono i nuovi leader. I ministri sembrano chiamati, quali «tecnici d’area» a fare l’interesse di tutti, non del loro capo, infatti, nessuno appartiene ai partiti confessionali che si spartiscono il Libano. Ma le riforme calate dall’alto possono non stabilizzarsi, restare il frutto occasionale di una circostanza felice che potrebbe non rinnovarsi. Ciò che è in ballo è sfruttare oggi l’occasione, battere il ferro caldo, non pretendere di sistematizzare ognuno nel proprio cantuccio un nuovo parametro, teologico o costituzionale. La partita è dare al Libano un sistema che consenta di creare una comunità politica, che poi vuol dire la cittadinanza in un Paese complesso, religiosamente ed etnicamente variegato.

Nuove forme di rappresentanza

Il meccanismo di voto oggi riflette comunità chiuse, autoreferenti, che si ritengono «nazioni». È il confessionalismo fallito, che elegge per quote confessionali i deputati. Tutti ci si ritrovano: gli sciiti presi dal loro comprensibile desiderio di riscatto dai tempi bui dell’ottomanesimo che li rimuoveva, essendo il Sultano sunnita; i sunniti presi dal loro desiderio di essere «maggioranza»; i cristiani avvolti nel loro incubo di essere messi in disparte dai musulmani e quindi alla ricerca di una protezione, magari anche di Hezbollah, essendo la protezione del potente l’unica garanzia di sopravvivenza. Tutto questo ha prodotto un confessionalismo che ha portato al fallimento economico, politico e spirituale del Libano.

C’è però negli accordi di pace del 1990 una previsione, già dunque iscritta nella costituzione libanese che offre la via del futuro: non solo di diventare un Paese, ma di farlo tenendo insieme la spinta comunitaria e quella individuale. Poiché il Libano è un Paese arabo e occidentalizzato, esistono entrambe.

La previsione costituzionale consente di passare al bicameralismo: per la Camera alta si voterebbe come si vota oggi, per quote confessionali (tanti maroniti, tanti sciiti, tanti drusi e così via), ma nella Camera bassa si voterebbe come si vota in Europa. La formula è stata riassunta così dal grande intellettuale maronita Samir Frangieh che la ideò: garanzie alle comunità, diritti agli individui. Si formerebbero dunque partiti interconfessionali dove un maronita liberale e un sunnita liberale si troverebbero nella stessa «comunità politica», non più estranei. Ma entrambi darebbero anche il loro contributo a preservare il ruolo della loro comunità di origine.

Questa formulazione offrirebbe una solida base di partenza costituzionale anche per affrontare i problemi di Siria e Iraq, prefigurando una possibilità confederale tra Paesi in difficoltà: alle volte anche l’unione dei deboli può fare la forza, e la storia di Beirut lo conferma. Una città che era una semplice fortificazione sul mare, con poche migliaia di abitanti fino a metà Ottocento; poi la fuga dalla guerra tribale che aveva luogo sulle montagne l’ha trasformata in pochi decenni in una metropoli, il porto ha creato borghesi e operai, una locomotiva regionale di progresso.

I venti di guerra non devono far tornare il passato: Beirut mi piace perché è il solo arabismo possibile, senza ideologismi falliti.

Terrasanta 2/2025
Marzo-Aprile 2025

Terrasanta 2/2025

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Fra Dario e la Terra Santa
fra G. Claudio Bottini

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Lo scontro in atto fra le voci più autorevoli del Paese incluso l’establishment militare, e gli ideologi del «Grande Israele» è la battaglia nascosta che forgerà il futuro dello Stato ebraico.

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