(g.s.) – Secolo dopo secolo, sulla crosta terrestre si succedono le generazioni. È un continuo avvicendarsi di scelte, pensieri, vite, nazioni, che plasmano quella che noi umani chiamiamo Storia. Ma se non fossimo solo noi gli artefici della Storia? Se anche i non-umani di questo pianeta ne fossero protagonisti, testimoni e parte viva? Perché non provare, ad esempio, a guardare gli eventi dalla prospettiva degli alberi, compagni di viaggio non poi così muti?
La suggestione muove Paola Caridi – storica, giornalista e saggista – in quest’ultimo suo libro, originale e bello da leggere.
Per cominciare, gli alberi ignorano quelle linee immaginarie e arbitrarie che noi chiamiamo frontiere. Spesso, però, ne subiscono le conseguenze e ne sono vittime. Pensiamo solo ai disboscamenti imposti dalle “esigenze di sicurezza nazionale”, dalla necessità di controllare meglio le barriere edificate lungo i confini.
Nell’Asia occidentale e nel bacino mediterraneo si è dipanata fino ad oggi la vita dell’autrice: dalla natia Roma, al Cairo, a Gerusalemme, alle terre di Sicilia, e, ultimamente, ad Amman. Un’esistenza itinerante, sospinta da interessi personali ed esigenze professionali (di Paola e del marito, Filippo Landi).
Degli alberi radicati in quelle regioni Caridi racconta; con loro, in qualche modo, dialoga.
Il libro parte da un moncone di gelso nel giardino di una delle case del placido quartiere di Musrara, a Gerusalemme Est. «Cosa aveva visto il gelso? E, soprattutto, cosa aveva detto il gelso senza che noi avessimo la sapienza e l’intelligenza per ascoltarne il linguaggio? E ancora, siamo noi a scegliere gli alberi? Oppure, sono gli alberi a scegliere quale umano seguire, nelle tappe della sua vita? Per dirla meglio, non sono forse gli alberi a poter raccontare anche il passaggio terreno degli umani? A volte da osservatori delle nostre disastrose avventure» (p. 13 s.).
Le pagine finali conducono invece lo sguardo dei lettori ai piedi di un grande pino piegato dal vento ma soccorso da un troncone di colonna posto a sorreggerne il fusto da mani pietose e creative. Il pino ritorto vegeta sul Monte Nebo, in Giordania, presso il memoriale di Mosè. Le mani che gli procurarono una stampella furono forse quelle di fra Michele Piccirillo, indimenticato archeologo francescano. Con altre piante, l’albero oggi fa ombra alla sua tomba.
Molti altri alberi, erbe e fiori popolano questo racconto corale. A cominciare dagli alberi-piazza, come i grandi sicomori che con le loro fronde (a Gaza e altrove) diventavano ovvi luoghi di incontro e riparo dalla calura per umani, insetti, quadrupedi e volatili. «Un albero sacro, anzi, il principe degli antichi alberi sacri. Per le tre religioni monoteiste, nel Levante, il sicomoro ha assunto gradualmente una sacralità che altri alberi non hanno avuto. Neanche l’ulivo» (p. 20). «Tradizione voleva che tutti potessero mangiare i frutti del sicomoro, perché il sicomoro era, in fondo, un albero in condivisione. Un albero pubblico, dunque. Il rifugio per i viaggiatori, per i pellegrini, e anche per i maestri di diverso tipo che sotto il sicomoro attendevano i propri discepoli. La pianta da frutto a cui tutti, soprattutto i viandanti e i poveri, potevano attingere, prendendo i piccoli fichi tondi dalle tonalità rosso-arancio» (26).
A proposito di colori accesi, gli aranceti di Jaffa hanno un capitolo tutto per sé, intrecciato con vicende umane che bruciano ancora. La varietà di arancia shamouti – ci ricorda Caridi –, «sviluppata dai contadini e dagli agronomi palestinesi nella prima metà dell’Ottocento era facilmente riconoscibile: un frutto allungato come un uovo, con una buccia spessa, pochi semi e dolce al gusto. La shamouti aveva soprattutto una qualità fondamentale, per l’epoca: era adatta, molto più delle altre varietà di arance, a sostenere lunghi viaggi, non solo via terra, ma soprattutto via mare (…) Fino al 1948 il porto di Jaffa era stato il centro propulsore dello sviluppo agricolo e della ricchezza, costruito in almeno un secolo e mezzo di storia» (p. 40).
Ecco perché «una distesa infinita di agrumeti circondava Jaffa. Erano le bayyarat palestinesi, una cinta di frutteti che si dispiegava al di là delle mura della città portuale e si inoltrava in profondità verso oriente. Jaffa, la città che più di tutte ha unito la terra al mare, e il porto agli alberi. Jaffa, la città che per tutti i palestinesi è il simbolo della terra perduta, e del porto da cui si è stati costretti a lasciarla, magari per dirigersi verso Gaza e le tende dei campi profughi. Mahmoud Darwish, la voce poetica della Palestina, lo aveva condensato in uno dei suoi versi più famosi: “Amo gli aranci e odio il porto”». (p. 39)
Paola Caridi
Il gelso di Gerusalemme
L’altra storia raccontata dagli alberi
Feltrinelli, 2024
pp. 160 – 17,00 euro