Dopo le vicende belliche dell'ultimo anno abbondante, Stati Uniti, Turchia e Israele sono oggi, di fatto, padroni del Medio Oriente (o Asia occidentale, che dir si voglia) e possono spartirsi le zone d’influenza come meglio credono.
Dopo tutti gli eventi che si sono susseguiti dal 7 ottobre 2023 (con le stragi di cittadini israeliani da parte dei terroristi di Hamas) fino all’accordo di ieri tra Israele e Hamas per la sospensione delle ostilità nella Striscia di Gaza, il Medio Oriente è diventato un unico calderone in cui le sorti dei diversi popoli e Paesi sono legate da infinite connessioni. Lo si è visto bene con l’offensiva guidata da Benjamin Netanyahu, che ha colpito Gaza, la Cisgiordania, l’Iran, la Siria e il Libano, quasi come se si trattasse di un unico campo nemico.
L’intimidazione dell’Iran, lo smantellamento della struttura militare di Hezbollah in Libano, il crollo della Siria di Assad di fronte alle milizie islamiste e filo-turche patrocinate dal presidente Recep Tayyip Erdogan aprono ora la strada a un patteggiamento a tre. Stati Uniti, Turchia e Israele sono oggi, di fatto, padroni del Medio Oriente e possono spartirsi le zone d’influenza come meglio credono.
Come si diceva, però, è tutto collegato. Se la tregua a Gaza si trasformerà in pace, e soprattutto se sarà avviata la terza fase dell’accordo, quella che prevede la ricostruzione, ritornerà in campo al Fatah, che il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha già candidato a prendere la responsabilità della Striscia con l’assistenza dell’Onu. L’anziano Mahmoud Abbas (Abu Mazen), in sostanza, agirà come un delegato degli Usa e di Israele e si realizzerà, nei fatti se non anche nei trattati, quel grande piano che Donald Trump aveva avanzato già nel 2020 e che prevedeva, appunto, la creazione di uno Stato palestinese in forma di innocua riserva indiana.
Se questo avverrà, cadranno anche molte delle resistenze dell’Arabia Saudita, che si è tenuta fuori dagli Accordi di Abramo (cui pure ambisce partecipare) proprio in segno di solidarietà, più che altro formale, con i palestinesi. Ci sono enormi interessi economici, oltre che politici, in ballo: il mercato del petrolio, i corridoi commerciali, gli investimenti della finanza internazionale. E, naturalmente, la politica di contenimento dell’Iran, distante pochi chilometri al di là dello Stretto di Hormuz.
Gli Stati Uniti, poi, che sono così presenti (15 basi e 30 mila soldati nel Golfo Persico) e influenti nelle petromonarchie arabe, hanno un piede in Siria (2.500 soldati) nell’area di Deir ez-Zor, che non solo è la più ricca di petrolio di tutta la Siria ma affaccia sull’Iraq attraverso il fiume Eufrate. Una presenza che ora fa il paio con quella israeliana nel Sud della Siria, arrivata a poche decine di chilometri da Damasco. Mossa difensiva e provvisoria, dicono israeliani e americani. Come se nessuno sapesse che le alture siriane del Golan sono “provvisoriamente” occupate da Israele dal lontano 1967.
In tutto il resto della Siria, peraltro, ora può metter le mani la Turchia per interposto Al-Jolani, l’ex tagliagole di Al Qaeda che, avendo preso il potere con l’assistenza di Erdogan, è ora coccolato dalla diplomazia internazionale. Turchia che da diversi anni, peraltro, controlla un’ampia striscia di territorio siriano di confine e non cessa di scontrarsi con i curdi (protetti dagli americani), che a loro volta si sono ritagliati una specie di “repubblica” autonoma.
Non è difficile quindi prevedere che le tre volpi in questione, cioè Erdogan, Netanyahu e Trump, dovranno prima o poi parlarsi per regolare gli equilibri mediorientali. Sono cambiate tante cose e tante facce dal 1916 ma per il Medio Oriente il destino è sempre quello: un eterno trattato Sykes-Picot.