Demarcazione dei confini, contrasto al contrabbando di armi, rientro dei profughi. Ma si è parlato anche di «relazioni strategiche a lungo termine» fra la Siria e il Libano nella prima visita in 15 anni che lo scorso sabato 11 gennaio 2025 il primo ministro ad interim libanese Najib Mikati ha compiuto a Damasco per incontrare il nuovo leader de facto della Siria, Ahmed al-Sharaa, fin qui più conosciuto col nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani. L’incontro è avvenuto due giorni dopo l’elezione alla presidenza del Libano del generale Joseph Aoun e tre giorni dopo una mossa del ministero del Tesoro americano che, pur lasciando in vigore le sanzioni economiche in atto dal 2011, potrebbe tradursi nella prima boccata d’ossigeno per la Siria. La visita ha in effetti evocato i tre grandi dossier sul tavolo dei nuovi leader siriani e degli osservatori occidentali: la ripresa dell’economia, il ritorno dei profughi e le garanzie sui diritti umani, tanto delle donne quanto delle minoranze.
«È urgente, ed è nell’interesse di entrambi i nostri Paesi, risolvere la situazione del milione di siriani che si sono rifugiati in Libano dal 2011 e assicurare il rientro nelle loro case» ha detto Mikati nella conferenza stampa conclusiva. Dal canto suo, il leader del gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham, che il mese scorso ha rovesciato il regime di Bashar al-Assad, si è limitato a dire che sono stati discussi «temi di grande rilevanza», come la sicurezza ai confini, ma non ha commentato in alcun modo le parole del premier libanese sui profughi e ha chiesto, anzi, ai siriani di abbassare le aspettative sul fatto che un Paese devastato da 14 anni di guerra possa riprendersi dall’oggi al domani.
Aiuti dall’estero, a partire dall’energia
Sarebbero poco più di sei milioni i siriani che hanno cercato rifugio all’estero dal 2011: oltre alla Turchia (3,1 milioni), al Libano (fino a 1,5 milioni, inclusi i non registrati), alla Giordania (649mila) e all’Iraq (286mila), poco meno di un milione si troverebbe in Europa, con la Germania in testa (716mila rifugiati siriani), seguita da Grecia, Svezia, Italia e Austria.
Dall’inizio dell’anno i ministri degli esteri di Francia, Germania, Italia e di altri Paesi si sono recati a Damasco per conoscere i nuovi leader siriani. Pochi, però, sembrano disposti a togliere le sanzioni o ad allargare i cordoni della borsa per la ricostruzione. Lo scorso 6 gennaio, tuttavia, a Washington il dipartimento del Tesoro ha emesso un’autorizzazione della validità di sei mesi che consente alle aziende statunitensi di cooperare con il nuovo governo siriano per la fornitura di elettricità e carburante. La misura non rimuove alcuna sanzione, ma dovrebbe facilitare l’arrivo di aiuti umanitari nel Paese. E sembrerebbe funzionare: il giorno dopo l’annuncio degli Stati Uniti, un funzionario governativo siriano ha reso noto che Qatar e Turchia invieranno delle centrali elettriche galleggianti al largo delle coste siriane. Le chiatte dovrebbero generare circa 800 megawatt, il che dovrebbe aumentare del 50 per cento la produzione di elettricità nel Paese, dove in questo momento lo Stato riesce a garantire non più di 4 ore di elettricità al giorno (la centrale elettrica di Aleppo, la maggiore del Paese, è fuori uso da anni). Gli Stati del Golfo stanno conducendo colloqui per finanziare un aumento del 400 per cento nei salari della pubblica amministrazione: una delle promesse iniziali del governo ad interim, che non sarebbe in grado di mantenere senza aiuti esterni.
Il nodo delle sanzioni internazionali
Priorità dunque agli aiuti umanitari e al ripristino delle forniture energetiche di base che sono un sollievo alla popolazione, ma anche la precondizione per la ripresa di qualsiasi attività produttiva. È chiaro a tutti, però, che saranno briciole se, con il passare dei mesi, le cancellerie occidentali non lavoreranno almeno a un alleggerimento delle sanzioni. Il dipartimento di Stato americano ha comminato sanzioni economiche alla Siria fin dal 1979, prima per l’invio di terroristi in Iraq, poi per le interferenze in Libano e per le stragi di decine di migliaia di siriani. Oggi, secondo funzionari europei e americani, è improbabile che le sanzioni possano essere rimosse in tempi rapidi. Tuttavia dopo la visita del ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock, lo scorso 3 gennaio a Damasco, i diplomatici tedeschi stanno facendo circolare una proposta che dovrebbe esser discussa tra i ministri degli Esteri dell’Unione europea a fine mese e che potrebbe portare a un alleggerimento almeno in due settori chiave: le banche e la principale compagnia aerea siriana (colpita dalle sanzioni statunitensi nel 2013 dopo la scoperta del contrabbando di armi iraniane sui suoi velivoli). Riconnettere le banche siriane al sistema internazionale agevolerebbe l’invio delle rimesse dall’estero (oggi è praticamente impossibile effettuare bonifici, anche tra privati cittadini).
Una donna alla guida della Banca centrale
La stessa Banca centrale siriana del resto è sottoposta a sanzioni. La nomina, lo scorso 30 dicembre, alla sua guida dell’economista Maysaa Sabrine, prima donna a guidare l’istituto, ha lasciato intendere agli osservatori occidentali che il nuovo governo riconosce il ruolo dei tecnici e che le donne non saranno poste ai margini della vita politica. Il suo incarico è tra i più complicati: la sterlina siriana ha perso il 99 per cento del proprio valore dal 2011 (oggi ne servono almeno 13mila per un dollaro) e le riserve estere si sono ridotte a 200 milioni di dollari. Il Pil siriano è crollato da un livello pari a 60 miliardi di dollari nel 2010 a meno di 9 miliardi oggi. La Banca mondiale stima che il 69 per cento dei circa 18 milioni di siriani presenti nel Paese viva con meno di 4 dollari al giorno.
È evidente, dunque, che nel breve termine la Siria avrà bisogno di contare sull’aiuto e sulle rimesse della sua ampia diaspora. Il neo ministro degli Esteri, Asaad al-Shaibani, dovrebbe recarsi in Arabia Saudita nelle prossime settimane proprio per far confluire verso i forzieri della Banca centrale liquidità proveniente dalle monarchie del Golfo e per convincere i Paesi arabi amici a finanziare la ricostruzione.
Le priorità nel dopoguerra non possono essere che alloggi e infrastrutture: gli investitori internazionali stimano un costo, nei prossimi anni, che oscilla fra i 250 e i 400 miliardi di dollari. Si calcola che solo ad Aleppo, seconda città della Siria, 137mila su 660mila delle case siano state danneggiate dalla guerra, mentre il 25 per cento dei ponti sono inutilizzabili e un terzo degli ospedali è stato danneggiato.
Nelle speranze dei siriani per il 2025 ci sono, dunque, l’alleggerimento delle sanzioni, aiuti dall’estero, sviluppo sostenibile condotto dai siriani e per i siriani, con delle responsabilità ineludibili per i nuovi governanti nell’andare incontro alle aspettative sulle riforme politiche e sociali indispensabili per stabilizzare il Paese.
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