Rumore di pioggia e dei colpi sparati dall’esercito israeliano contro il campo profughi di Jenin. È quello che si sente dalla casa di abuna Amer Jubran, il parroco della piccola comunità cattolica locale, mentre ci racconta il clima che si respira in questi giorni nella città a nord della Cisgiordania.
Il 23 gennaio l’esercito ha ordinato l’evacuazione del campo (anche se l’esercito israeliano ha negato che sia stato emesso un ordine ufficiale). Il campo profughi è la parte della città costruita negli anni Cinquanta per ospitare i rifugiati della Nakba del 1948 e dove oggi vivono almeno 15mila persone. Padre Amer ci spiega che l’ordine è esecutivo a partire dalle ore 17, mentre manca poco all’ora stabilita. «La gente deve abbandonare le case, dopo non si sa che cosa accadrà. Forse lunedì avranno il permesso di rientrare, ma non è certo».
Da tre giorni i militari sono rientrati nel campo dove stanno cercando di arrestare i responsabili di un attacco terroristico compiuto a Funduq che ha causato la morte di tre israeliani lo scorso 6 gennaio. Se nella Striscia di Gaza i combattimenti sono per ora cessati, in Cisgiordania le violenze non si fermano e in particolare a Jenin e nei villaggi vicini l’offensiva militare (che gli israeliani hanno chiamato «Muro di ferro») sta provocando uccisioni e arresti.
«Finora sono state uccise 12 persone, due uomini ieri sera (il 22 gennaio – ndr) – spiega il parroco –. Jenin è un po’ il centro della resistenza palestinese, per questo l’esercito israeliano cerca di distruggere questa resistenza. Alla fine di agosto 2024 l’esercito era già entrato nel campo per una decina di giorni, aveva distrutto le strade principali, compresa la via di accesso all’ospedale e danneggiato edifici e negozi. E qui la vita era già diventata molto difficile dopo il 7 ottobre 2023, con la chiusura di molti check-point e la sospensione dei permessi di lavoro per i palestinesi impiegati in Israele. Questo aveva causato enormi problemi economici».
Padre Amer racconta come da mesi sia diventato impossibile muoversi: ci vogliono cinque ore di strada per arrivare a Gerusalemme. Altrettante per arrivare a Nazaret, che in linea d’aria dista solo una ventina di chilometri, ma siccome sono chiusi i posti di frontiera, bisogna percorrere un tragitto anche di 100-120 chilometri.
Che cosa è successo in questo nuovo assalto al campo di Jenin? «La gente è restata chiusa nelle case, sono state tagliate le forniture di elettricità e acqua, intanto piove e fa freddo. Si sentono di continuo gli attacchi dell’operazione militare». Poco più di un chilometro separa la zona del campo dalla chiesa di San Salvatore, la chiesa della comunità cattolica al centro della città. Nel campo di Jenin la popolazione è interamente musulmana, ma nei pressi vivono una quindicina di famiglie cristiane con cui padre Amer si tiene in contatto. «Anche alcune loro proprietà hanno subito danni e distruzioni – ci spiega –. Ho parlato con gente che vive nelle vicinanze e mi hanno raccontato di varie distruzioni. Le vie di accesso sono così danneggiate che le ambulanze fanno fatica a passare».
La comunità cristiana locale è sparsa tra la città e alcuni villaggi circostanti, come Burqin, dove ci sono una ventina di famiglie cristiane di rito orientale e dove l’antica chiesa di san Giorgio ricorda il miracolo dei lebbrosi narrato nel Vangelo di Luca. Circa 75 famiglie formano la comunità di cattolici di rito latino di Jenin. «La relazioni con i musulmani in generale sono buone. C’è un senso di stanchezza per la situazione, e questo talvolta può creare tensioni. I cristiani sono forti e coraggiosi, nonostante la carenza di lavoro non vogliono lasciare le loro case».
La revoca dei permessi di lavoro per chi si recava ogni giorno nella vicina Galilea, in Israele, ha un impatto sulla vita delle famiglie. «Come parrocchia cerchiamo di dare un aiuto, ma non abbiamo le risorse per rispondere a tutti i bisogni». Abuna Amer racconta che la chiesa offre aiuto agli studenti per pagare le rette delle scuole e dell’università, ha fornito aiuti economici per l’acquisto di medicine e talvolta anche di cibo. La parrocchia fa parte del Patriarcato latino di Gerusalemme e il cardinale Pierbattista Pizzaballa aveva visitato Jenin lo scorso settembre dopo gli scontri armati di agosto e si mantiene in contatto costante con la comunità.
Il parroco ci tiene a ribadire che la parrocchia non può limitarsi agli aiuti economici. Abuna Amer è arrivato da pochi mesi a Jenin, dopo avere trascorso alcuni anni in Giordania e poi a Beyt Jala. Osserva come la gente abbia sete della Parola. «La chiesa è piena alla messa della domenica, che si celebra alla sera. Ci sono un centinaio di persone. E c’è anche partecipazione nei villaggi vicini. Svolgo i miei compiti con le mie debolezze – confida –. Ma mi affido al Signore e questo mi fa essere sereno. Alle persone ripeto, specialmente ora che è iniziato l’Anno santo, che il Signore dà speranza. Perché Cristo ha vinto la morte».
Padre Amer spera anche che la sua comunità non sia dimenticata, che i pellegrini che torneranno in Terra Santa sappiano che anche a Jenin ci sono cristiani, che hanno bisogno di sostegno, mentre la città vive questo nuovo assedio. (f.p.)