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Unctad: Senza la pace non possono ripartire economia e lavoro

Manuela Borraccino
25 dicembre 2024
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Nel 2024 in Cisgiordania il tasso di disoccupazione è triplicato. Cala meno l’occupazione femminile, ma solo perché le donne partecipano ancora troppo poco al mercato del lavoro.


Oggi il tasso di disoccupazione dei palestinesi è al 51,1 per cento (ma se ci limitiamo alla Striscia di Gaza è al 79,7 per cento). L’impatto della guerra sul mercato del lavoro non è stato affatto neutrale in termini di genere: lo rimarca la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e sviluppo (Unctad), in un rapporto che constata come – in un contesto dove il tasso di occupazione femminile era già basso prima della guerra – le restrizioni alla mobilità e il calo degli occupati abbiano colpito prevedibilmente assai più gli uomini che le donne palestinesi. «Sia uomini che donne, tuttavia, affrontano severe, seppur diverse, sfide economiche e lavorative»: è più che raddoppiato il tasso delle famiglie che in Cisgiordania vivono in povertà, ovvero sotto la soglia minima di sussistenza, passando dal 12 per cento nel 2023 al 28 per cento del 2024. L’impatto della guerra verrà avvertito per generazioni, avvertono gli estensori del rapporto.

Il livello di partecipazione al lavoro nei primi nove mesi di guerra, fino al 30 giugno 2024, in Cisgiordania (non sono disponibili dati sulla Striscia di Gaza) ha visto un calo del 2,2 per cento per gli uomini e dell’1,4 per cento per le donne: in particolare risultava del 74,3 per gli uomini (rispetto al 76,4 per cento fino al 30 giugno 2023) e del 17,9 per le donne (rispetto al 19,3 per cento del 2023).

Nel quarto trimestre del 2024 secondo le stime dell’Ufficio statistico palestinese appena 26mila palestinesi risultavano impiegati nell’economia israeliana, prevalentemente nelle colonie in Cisgiordania, a fronte dei 190mila impiegati fino al 7 ottobre 2023. I disoccupati nei Territori risultavano a fine ottobre 734.685, praticamente raddoppiati rispetto ai 363.213 disoccupati al 30 settembre 2023: si tratta del maggiore aumento nel tasso di disoccupazione dalla firma degli Accordi di Oslo nel 1993.

Se l’occupazione maschile è crollata nei primi nove mesi della guerra di 28,3 punti percentuali ciò si deve alla sostanziale perdita di posti di lavoro in Israele, dove i palestinesi lavoravano fino al giorno dell’attacco di Hamas. Nel momento in cui hanno dovuto cercare lavoro nei Territori, rimarca il rapporto, la limitata capacità delle aziende palestinesi di generare nuovi posti di lavoro nelle dure condizioni dovute all’occupazione militare israeliana si è tradotta in un tasso triplicato di disoccupazione e nell’aumento del 12,3 per cento degli inoccupati, ovvero degli scoraggiati che smettono di cercare lavoro.

Anche per le donne le conseguenze sono state severe, ma meno pronunciate rispetto agli uomini. I livelli di occupazione sono diminuiti del 12,8 per cento, mentre la disoccupazione è cresciuta del 18,6 per cento e le inattive, ovvero coloro che non cercano lavoro, sono cresciute di appena il 3,9 per cento. Ciò non sorprende perché le donne erano già prima della guerra in posizioni più stabili all’interno della forza lavoro: in Palestina le donne lavorano principalmente nella pubblica amministrazione, nell’istruzione e nella sanità, tutti settori che sono stati meno colpiti dal conflitto rispetto ai settori dell’edilizia o delle manifatture, dove gli uomini costituiscono la maggior parte della manodopera. Inoltre prima della guerra erano poche le donne occupate nel mercato del lavoro israeliano, quindi la chiusura di questo mercato ai palestinesi non ha avuto un impatto significativo sull’occupazione femminile.

Detto questo, il rapporto sottolinea che gli indicatori sulla partecipazione delle donne al mondo del lavoro erano già bassi ben prima della guerra: la crisi economica e lavorativa attuale ha solo peggiorato la loro vulnerabilità, con potenziali ripercussioni a lungo termine. «Le donne che perdono il lavoro infatti – si legge – affrontano sfide notevoli quando cercano una nuova occupazione: preoccupano il potenziale aumento di sfruttamento, violenze e abusi sessuali, che tendono ad intensificarsi in tempi di guerra e ristrettezze economiche».

Oltre alla perdita di posti e di opportunità lavorative, anche la media dei salari giornalieri è diminuita in Cisgiordania nei mesi seguiti allo scoppio della guerra. Gli uomini si sono impoveriti di più visto che i posti di lavoro sono andati in fumo in Israele, dove i salari avevano un importo quasi doppio rispetto a quelli analoghi in Cisgiordania. Benché le donne abbiano affrontato un calo minore, resta il gender gap nei salari: alla fine del secondo trimestre 2024 le donne risultavano guadagnare il 19,1 per cento in meno rispetto ai loro omologhi maschili.

Il rapporto passa in rassegna con molti fatti e cifre come oltre 14 mesi di guerra abbiano dilaniato le comunità palestinese riducendo sul lastrico e sull’orlo della disperazione intere famiglie, deprivate di fonti di reddito e non più in grado di provvedere al pane quotidiano. «Senza la fine delle violenze – rimarca l’Unctad – non ci sono le condizioni minime per affrontare le crescenti crisi economica e del lavoro, ripristinare i servizi essenziali o iniziare una ripresa a lungo termine, basata su assistenza umanitaria, pace e sviluppo». Serviranno programmi infrastrutturali di occupazione intensiva per generare subito posti di lavoro e contemporaneamente affrontare i divari significativi nelle infrastrutture dei Territori palestinesi. Investire su istruzione e formazione sarà di importanza cruciale per reintegrare i bambini nell’istruzione dopo più di un anno di chiusura di scuola e per preparare donne e giovani alla ripresa nel dopoguerra. Così come è fondamentale, chiosa il rapporto, sostenere le micro imprese basate sul lavoro autonomo e le piccole e medie aziende, poiché non solo aiuta impiegati e imprenditori ma gioca un ruolo cruciale nel portare alla creazione di lavoro ed assicurare la stabilità economica.

L’economia palestinese dipende in gran parte da Israele non solo per il mercato del lavoro ma anche per l’export e per il sistema finanziario: il 64,1 per cento del commercio estero è diretto verso Israele a causa dei costi amministrativi e di trasporto che rendono molto difficile esportare altrove, visto che le merci devono transitare da Israele. Dipende inoltre dalla valuta israeliana, lo shekel, e dal suo sistema bancario per i pagamenti internazionali. Al 30 settembre 2024 il Pil palestinese risultava crollato del 32,2 per cento rispetto ad un anno prima, con una contrazione del 21,7 per cento in Cisgiordania e dell’84,7 per cento nella Striscia di Gaza. Tra Cisgiordania e Gaza secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) le perdite nella produzione sono stimate intorno ai 19 milioni di dollari al giorno.

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