Mentre Mosca conferma che il presidente siriano Bashar al-Assad e famiglia hanno ottenuto asilo in Russia «per ragioni umanitarie», mentre nelle strade di Damasco e delle principali città siriane regna il caos, mentre Israele ha dichiarato di aver effettuato attacchi aerei contro «sistemi di armi strategiche» all’interno della Siria, mentre l’esercito dello Stato ebraico ha condotto operazioni di terra sul territorio siriano occupando a suo dire in forma «limitata e temporanea» aree del Monte Hermon (a nord-est delle Alture del Golan); mentre in maniera forse troppo tempestiva c’è chi plaude alla caduta del dittatore (detto per inciso, Assad dittatore lo è stato e tra i più efferati), è lecito porsi almeno una domanda: se la caduta del rais di Damasco ha di fatto indebolito l’Iran – acerrimo nemico di Israele –, attraverso il cui regime Teheran esercitava la sua influenza nella regione, quali rischi comporta per l’intera regione l’avanzata fulminea di un gruppo eterogeneo di forze ribelli con radici nell’ideologia islamista di al Qaeda?
Un puzzle non facile
Abbiamo già tratteggiato in un precedente articolo la figura di Mohammad al-Golani, e la recente strategia adottata dal leader del già Fronte al-Nusra – ora Hayat Tahrir al-Sham (Hts) – per non apparire troppo estremista, in un frangente storico in cui le forze ribelli siriane necessitavano di un «federatore». Ma la galassia delle fazioni che si sono messe in marcia da nord e in pochi giorni ha messo in fuga Assad – abbandonato prima da Mosca e da Teheran e poi, immantinente, dal suo stesso esercito – saprà trovare un accordo per gestire questa nuova fase e aprire il Paese ad una possibile rinascita? Oppure prevarranno le ideologie, gli interessi di parte, i diktat di chi ha dato le carte in questo giro di giostra, Turchia in testa?
Una veloce ricognizione sul campo fa comprendere la complessità nella quale di trova oggi la Siria. A nord vaste aree oltre confine sono controllate dall’esercito turco. Poi ci sono le aree sotto la giurisdizione dei curdi, praticamente la regione oltre l’Eufrate. In questa zona sono presenti anche diverse basi statunitensi. I ribelli delle varie fazioni sono poi dilagati fino a Damasco e al confine con Giordania e Iraq a sud. All’interno di questo territorio insistono alcune sacche di militanti dello Stato islamico che non si sono allineate con le fazioni capeggiate da al-Golani. La Russia, in questo grande risiko geopolitico, conserva le sue basi militari sulle sponde del Mediterraneo. Verso la costa, tra Tartus e Latakia, resistono gli alawiti, fedelissimi della famiglia Assad e «nerbo» delle forze armate governative, di cui oggi però sembra essersi persa traccia.
Assad senza puntelli
Come in una sorta di riedizione dell’italico 8 settembre, riferiscono fonti di Damasco, non è raro trovare per strada divise abbandonate da militari che scelgono di disertare. Secondo fonti d’agenzia, più di quattromila soldati dell’esercito siriano sarebbero entrati in Iraq, consegnando armi, munizioni e veicoli blindati.
Più passano i giorni, e più appare chiaro che l’azione degli islamisti di Hayat Tahrir al-Sham (Organizzazione per la liberazione del Levante) era preparata da tempo, e nasce come una diretta conseguenza della guerra russa in Ucraina. In Siria, negli anni del duro confronto militare con gli oppositori di Assad, avevano agito le milizie scelte della Russia, i battaglioni dei cosiddetti «macellai ceceni» e perfino i mercenari della compagnia Wagner, organizzati dall’allora fedelissimo di Putin Evgenij Prigožin (morto in un incidente/attentato aereo nell’agosto 2023). Da quando è scoppiata la guerra con l’Ucraina, di queste «forze speciali» non c’era più traccia nelle terre siriane.
Sul versante filo-iraniano, le azioni di Israele hanno dato un duro colpo a Hezbollah (oltre che a Hamas), di fatto fazioni sostenitrici del regime di Assad. La morte del leader Hassan Nasrallah e l’attacco israeliano nel sud del Libano hanno «distratto» Hezbollah dal sostegno al regime di Damasco.
Un Paese allo stremo
La situazione economica del Paese ha fatto il resto. La popolazione in questi anni di guerra si è ridotta alla fame e il regime, anche negli anni di sostanziale stabilità, è sembrato incapace di intraprendere qualsiasi strada di ripresa e di sviluppo. Per questa ragione alla notizia della caduta di Bashar al-Assad la popolazione si è riversata per le strade e non ha nascosto le proprie speranze per un futuro migliore.
Lo testimonia anche fra Bahjat Karakach, francescano e parroco latino di Aleppo: «Questi anni di guerra hanno segnato profondamente la Siria, causando un cambiamento radicale nel tessuto sociale. Il Paese è irriconoscibile da tutti i punti di vista. La famiglia, che era il pilastro della società, ha subito grandi cambiamenti. Molti nuclei sono sparsi in giro per il mondo… La gente per mantenersi deve fare tre lavori al giorno. Chi ha più tempo per le relazioni sociali? Il recente terremoto ha ulteriormente aggravato la situazione. Nessuno avrebbe immaginato che si potesse vivere qualcosa di peggio della guerra».
«Oggi – prosegue il religioso francescano – finalmente e dopo decenni di sofferenza la Siria si sveglia con la gioia della caduta del regime sanguinario di Assad. C’è molta speranza qui, anche se sappiamo che ci aspettano giorni difficili che determineranno il futuro della Siria. Sono stati liberati dalle carceri i prigionieri politici e c’è speranza anche tra i cristiani che possa nascere una Siria migliore. Per questa ragione mi auguro che molti dei nostri possano ritornare in patria per contribuire a ricostruire il Paese».
Prima sorpresa: il nuovo capo del governo
Nelle scorse ore, intanto, è stata diramata dalla tivù qatariota al-Jazeera la notizia che sarà Muhammad al-Bashir, e non l’esiliato ex premier siriano Riad Hijab o l’attuale primo ministro Muhammad Jalali, il capo del governo di transizione a Damasco. La scelta di Muhammad al-Bashir sarebbe stata imposta, afferma la tivù, dallo stesso al-Golani.
Il profilo di al-Bashir è quello di un fedelissimo e di un combattente della prima ora. Già capo del governo di salvezza nel governatorato di Idlib, la roccaforte dei ribelli, Mohammed al-Bashir, ha poco meno di quarant’anni, ha conseguito una laurea in ingegneria elettronica all’Università di Aleppo (2007) e una laurea in Diritto islamico presso l’Università di Idlib (2021). Saprà una figura come la sua, cresciuta entro la galassia del jihadismo, garantire il pluralismo, l’apertura e la tolleranza necessaria per tenere insieme le tante tessere del mosaico siriano? O il suo avvento a Damasco è il preludio di una nuova fase della guerra civile?
Si susseguono intanto le aperture di credito delle cancellerie occidentali verso il nuovo corso: un alto ministro del Regno Unito ha dichiarato che il Paese potrebbe riconsiderare lo status di fazione terroristica per Hayat Tahrir al-Sham, il gruppo ribelle islamista capeggiato appunto da al-Golani, ora al potere a Damasco. Non da meno la Francia: Il ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot, ha fatto sapere che il Paese manderà a breve un inviato diplomatico speciale a Damasco.