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Stato di Palestina, il riconoscimento non basta

Manuela Borraccino
30 dicembre 2024
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Stato di Palestina, il riconoscimento non basta

Sono 149 i Paesi che riconoscono Stato di Palestina. Aldilà del valore simbolico, le parole non cambiano la realtà sul terreno. Senza pressioni sui coloni israeliani e se non si lavora per scongiurare il collasso finanziario dell’Autorità palestinese il sogno di due Stati per due popoli è pura retorica.


Settimane fa alcuni uomini armati nel campo profughi di Jenin hanno rubato due veicoli dell’Autorità nazionale palestinese (Anp): uno apparteneva alla polizia, l’altro al ministero dell’Agricoltura. Il furto era una risposta all’arresto di un uomo addetto al trasferimento di denaro, sospettato di aver passato dei fondi a una banda del Jihad islamico. Non solo i ladri hanno rifiutato di restituire i pick-up sottratti, ma hanno anche compiuto un giro trionfale nelle strade del campo profughi agitando la bandiera del Jihad e sparando in aria. Infuriato per l’aperta sfida e desideroso di mostrare che l’Anp sarebbe in grado di gestire la Striscia di Gaza in caso di tregua, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha ordinato di entrare nel campo profughi e arrestare i miliziani armati. Lo scorso 14 dicembre ha così avuto luogo la più grande retata di arresti degli ultimi dieci anni, con due miliziani uccisi, in una delle principali cittadine palestinesi della Cisgiordania. L’episodio ha una sua rilevanza nella lotta che l’Autorità palestinese, con una popolarità ai minimi storici, sta conducendo per potersi sedere intorno a un eventuale tavolo dei negoziati con Israele se e quando le monarchie del Golfo insieme a Stati Uniti e Unione europea riusciranno a imporre una tregua.

Nel corso del 2024 vari Paesi come Irlanda, Spagna, Norvegiahanno riconosciuto formalmente lo Stato di Palestina: oggi sono 149 a farlo, oltre a Stati come Belgio, Lussemburgo, Francia e Gran Bretagna che hanno manifestato la loro disponibilità in tal senso. Da quando, nel 2012, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto l’Autorità palestinese come Stato osservatore non membro, l’Anp ha siglato quasi 200 trattati ed è entrata in molti organismi unilaterali. Il riconoscimento internazionale tuttavia non risolve i problemi sul campo: la continua espansione delle colonie ebraiche nei Territori occupati (che non si è arrestata nel corso del 2024); la frammentazione dei territori palestinesi fra Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est; le difficoltà di garantire ordine e sicurezza nelle aree controllate dai palestinesi e la corruzione che ha messo in ginocchio l’amministrazione pubblica palestinese.

Il problema principale poi è che il riconoscimento internazionale, benché abbia un peso dal punto di vista politico, di per sé non comporta benefici concreti per i palestinesi: le azioni del governo israeliano per demolire le finanze dell’Anp hanno portato l’organismo sull’orlo dell’insolvenza e oggi, avverte la Banca mondiale, l’Autorità palestinese è più vicina al collasso finanziario di quanto non sia mai stata dai tempi della seconda Intifada (2000-2005).

Le ristrettezze finanziarie, d’altra parte, sono solo uno dei motivi della scarsa efficienza di governo dell’Autorità palestinese: corruzione e autoritarismo hanno fatto crollare la popolarità dell’Anp. Nelle aree che controlla più o meno pienamente (le aree A e B stabilite 30 anni fa dagli accordi di Oslo e che oggi comprendono circa il 40 per cento della Cisgiordania), l’Anp riesce solo in parte a garantire servizi ai residenti e ormai neppure la sicurezza: un numero crescente di bande armate sfida da anni a Jenin, Nablus e Tulkarem le demotivate e sottopagate forze dell’ordine palestinesi. L’ultimo sondaggio condotto lo scorso settembre nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania dal Centro palestinese di studi per le politiche e i sondaggi (Palestinian Center for Policy and Survey Research), il maggiore istituto demoscopico palestinese con sede a Ramallah, ha mostrato un calo significativo di consensi per l’attacco del 7 ottobre 2023 (scesi dal 52 per cento della precedente rilevazione al 39 per cento di settembre) e di aspettative che Hamas possa “vincere” la guerra (dal 48 al 28 per cento). Sono inoltre diminuiti i consensi a favore di un’amministrazione da parte di Hamas della Striscia di Gaza quando finirà la guerra: solo il 37 per cento dei gazesi lo ritiene possibile (contro il 70 per cento dei palestinesi della Cisgiordania), mentre il 42 per cento dei gazesi pensa che l’amministrazione debba passare all’Autorità palestinese contro appena il 17 per cento nei Territori. Infine la rilevazione mostra un aumento significativo dei consensi a favore della soluzione dei due Stati: sono oggi il 39 per cento tra Cisgiordania e Gaza contro il 32 per cento della prima metà dell’anno, ma la percentuale sale al 51 per cento se si parla di confini al 1967; è in calo anche il sostegno alla lotta armata e aumentano sensibilmente i consensi per i negoziati.

Resta il dato di fatto che non basta una firma a far passare l’Autorità palestinese da un organismo provvisorio a un ente che possa rappresentare uno Stato permanente. Il rischio che la Palestina nasca come uno Stato fallito è realistico in questa situazione di grave disfunzionalità ed inefficienza, stato di insolvenza economica e delegittimazione popolare: l’incapacità di garantire almeno l’ordine e la sicurezza potrebbe favorire l’ascesa di organizzazioni criminali armate in diverse aree della Cisgiordania, come già avvenuto durante la seconda Intifada. Evitare questo scenario dovrebbe stare a cuore anzitutto allo Stato di Israele e a chi ha a cuore anche il suo futuro.

La mossa più urgente per stabilizzare il processo di costruzione dello Stato di Palestina è di rispondere all’emergenza finanziaria: il premier palestinese designato lo scorso febbraio, Mohammad Mustafa, ha chiesto 2,7 miliardi di dollari per ripristinare la fluidità di cassa almeno fino a metà del 2025, ma questo fondo costituisce una copertura temporanea e solo con l’assistenza degli attori internazionali porterà risultati concreti.

«Il cessate il fuoco è atteso da tempo», ha constatato lo scorso mercoledì 18 dicembre al Consiglio di sicurezza dell’Onu Khaled Khiari, funzionario d’alto rango della segreteria generale delle Nazioni Unite. «La punizione collettiva del popolo palestinese – ha detto – e gli incessanti bombardamenti di Gaza sono ingiustificabili: la continuazione dell’occupazione anche in Cisgiordania, dove gli insediamenti sono illegittimi e violano il diritto internazionale, porterà solo altro odio e antagonismo e getterà i semi dell’instabilità in tutta la regione».

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