Secondo alcuni analisti, l’elettorato degli Usa ha punito nelle urne i democratici che, appoggiando Israele incondizionatamente, alle elezioni presidenziali hanno perso la Casa Bianca. Il ritorno di Donald Trump al potere non migliora le prospettive per i palestinesi, a meno di efficaci pressioni dal basso.
«Gli elettori americani arabi e musulmani non hanno rimosso i democratici dal loro incarico, né sono costati a Kamala Harris lo Studio Ovale. Hanno semplicemente inviato un messaggio forte: la Palestina è importante non solo per gli arabi e i musulmani, ma anche per molti americani».
A pochi giorni dal voto negli Usa, che ha decretato la sonante vittoria di Donald Trump (e viceversa per democratici una cocente sconfitta), sui giornali mediorientali si continua a dibattere e ad analizzare una tornata elettorale che potrebbe avere non poche conseguenze anche a livello regionale.
Già Peter Beinart, in un intervento apparso il 7 novembre sul New York Times (e intitolato “I democratici hanno ignorato Gaza e hanno fatto crollare il loro partito”) scriveva: «Il massacro e la condanna alla fame dei palestinesi da parte di Israele, azioni finanziate dai contribuenti statunitensi e trasmesse in diretta streaming sui social media, hanno innescato una delle più grandi ondate di attivismo progressista». Protagonisti di questa ondata di attivismo sono stati soprattutto «neri e giovani».
Sull’analisi del voto americano da una prospettiva mediorientale, è tornato il 12 novembre scorso, su The Jordan Times, Ramzy Baroud, giornalista, scrittore, direttore di The Palestine Chronicle e ricercatore senior presso il Center for Islam and Global Affairs (Ciga), con sede a Istanbul, Turchia.
«Innegabilmente, per la prima volta nella storia delle elezioni statunitensi, la Palestina è diventata una questione politica interna americana, un incubo per coloro che hanno lavorato per mantenere la politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente come un dominio esclusivo di Israele», fa notare l’analista. Che aggiunge: «Oltre agli elettori arabi, neri e di altri gruppi minoritari che hanno dato priorità alla Palestina, molti americani bianchi la pensavano allo stesso modo. Questa affermazione è particolarmente importante perché suggerisce che gli elettori americani stanno sfidando il paradigma della politica identitaria e stanno pensando a lotte, valori e moralità comuni».
Secondo Baroud, è stato il sostegno militare incondizionato dell’amministrazione Biden a Israele ad aver acceso gli animi e spostato in maniera consistente voti: «Secondo un rapporto preparato per il progetto Costs of War dell’Istituto Watson (della Brown University di Providence), l’amministrazione Biden ha concesso a Israele almeno 17,9 miliardi di dollari, un record, in aiuti militari nel primo anno di guerra, che arrivano quasi a 23 miliardi di dollari se si includono operazioni militari correlate condotte direttamente dagli Stati Uniti. Inoltre, secondo un rapporto pubblicato il 4 ottobre dal giornale investigativo no-profit ProPublica, «gli Stati Uniti hanno spedito più di 50 mila tonnellate di armi a Israele dal 7 ottobre 2023».
Le cronache raccontano anche altro: all’indomani delle elezioni presidenziali statunitensi, il ministero della Difesa israeliano ha firmato un accordo per l’acquisto di 25 jet da combattimento F-15IA dalla statunitense Boeing per 5,2 miliardi di dollari. L’accordo prevede un’opzione per altri 25 aerei da caccia, secondo quanto riportato dal sito specializzato DefenseNews. Per il ruolo a dir poco attivo nella guerra d’Israele contro Hamas, che ha mietuto finora oltre 42mila vittime, in gran parte civili, i democratici sono stati insomma penalizzati dagli elettori americani. Ma, avverte Baroud, se è vero che il messaggio è arrivato forte e chiaro, «non ci si deve fare illusioni. Né il presidente eletto Donald Trump né il suo entourage di destra saranno i salvatori della Palestina».
La politica di Trump nel suo precedente mandato, relativamente alla questione israelo-palestinese, ricorda l’analista, «ha spianato la strada alla completa emarginazione dei palestinesi. Lo ha fatto concedendo a Israele la sovranità su Gerusalemme Est occupata, riconoscendo gli insediamenti illegali come legittimi, conducendo una guerra finanziaria contro i palestinesi e tentando di distruggere l’agenzia Onu per i rifugiati, l’Unrwa. Insomma, se Trump tornerà alle sue vecchie politiche distruttive in Palestina, inizierà sicuramente un’altra guerra».
Quale strategia, allora? Il politologo intravvede questa strada: «Il campo pro-Palestina, che è riuscito a convertire la solidarietà in un’azione politica decisiva, non deve aspettare che la nuova amministrazione statunitense adotti una linea politica più ragionevole sulla Palestina. A giudicare dalla storia del sostegno repubblicano a Israele, non ci si deve aspettare una tale sensibilità. Sembra invece giunto il momento di fare leva sulla solidarietà esistente tra tutti i gruppi americani che hanno votato contro il massacro ai danni dei palestinesi nelle ultime elezioni. Questa è l’occasione perfetta per tradurre i voti in azioni concrete e forti pressioni, in modo che tutte le componenti del governo statunitense sentano il grido assordante “cessate il fuoco ora” e “Palestina libera, libera”».
La chance di essere ascoltati, paradossalmente, sembra ora più alta che in passato, perché dalle urne americane è uscita in maniera lampante la prova che gli elettori sono in grado, in nome di valori condivisi, di destabilizzare l’intero scenario politico, come avvenuto il 5 novembre 2024.