Il 26 novembre 2024 porta con sé l'accordo per la tregua tra Israele e Hezbollah ma anche, sul versante di Gaza, la pubblicazione del rapporto di una commissione della società civile israeliana sulle responsabilità del governo riguardo agli eccidi del 7 ottobre 2024. Aspre critiche al premier Benjamin Netanyahu.
Ci sarà modo, nelle prossime settimane, per capire se questa tregua tra Israele e Hezbollah (il Libano, in quanto Stato, resta defilato) può reggere, se i contendenti hanno voglia di rispettarla, se si tratta di una tregua vera o di una semplice attesa dell’insediamento di Donald Trump. È piuttosto chiaro, a leggerne il testo, che questa intesa ricalca nella sostanza quella che fu siglata nel 2006 dopo un’altra breve e cruenta guerra: Hezbollah si ritira più a nord, le truppe di Israele rientrano nei confini nazionali, il contingente Onu e l’esercito del Libano si mettono nel mezzo. Che dire? Speriamo che questa volta vada meglio.
Val la pena notare, però, che proprio nel giorno in cui i mediatori francesi e statunitensi annunciavano l’accordo per il cessate il fuoco (entrato in vigore nelle prime ore di oggi, 27 novembre), da Israele arrivavano segnali importanti di una ripresa della battaglia politica interna. Intanto, la Commissione civile d’inchiesta sui fatti del 7 ottobre 2023 (organismo non istituzionale creato dai familiari delle vittime di quel «sabato nero» – ndr), guidata dal giudice Varda Alsheikh, ha espresso un giudizio durissimo sull’operato del premier Benjamin Netanyahu e del suo governo di fonte alle stragi dei terroristi di Hamas. In sostanza – nel suo rapporto pubblicato il 26 novembre –, la Commissione accusa Netanyahu di aver colpevolmente ignorato diversi precisi allarmi sulle intenzioni omicide di Hamas e di aver poi reagito in modo maldestro all’attacco. Non solo: Netanyahu viene anche accusato di aver finanziato Hamas per lungo tempo, ignorando il pericolo che l’organizzazione rappresentava nella speranza di poterla usare contro l’altra fazione palestinese, Al Fatah, per allontanare la prospettiva della soluzione «due popoli due Stati».
Un tackle durissimo, anche perché Netanyahu ha sempre respinto gli inviti a formare una commissione ufficiale d’inchiesta sui terribili fatti del 7 ottobre. Questo ha molto a che vedere con Hezbollah e la tregua. Perché in Israele sono molti a pensare che l’accanimento su Gaza, anche a scapito della possibilità di salvare gli ostaggi, sia il frutto di una scelta populista ma strategicamente errata. E cioè, che il nemico più insidioso per lo Stato ebraico sia Hezbollah (con relativo appoggio dall’Iran), e non i civili di Gaza, e che su Hezbollah andrebbero concentrati gi sforzi. Non è un caso se il primo sondaggio fatto a proposito della tregua dice che il 52 per cento degli israeliani è contrario, vorrebbe continuare la battaglia contro il movimento sciita.
Di tutto questo potrebbe approfittare Benny Gantz, l’ex primo ministro che faceva parte del gabinetto di guerra di Israele da cui però si dimise nel giugno scorso in polemica con Netanyahu. Gantz, allora, voleva una tregua a Gaza per salvare gli ostaggi. Mentre oggi chiede di non cedere terreno di fronte a Hezbollah, proprio per le ragioni sopra indicate. Una posizione che, se ben giocata, può accontentare il desiderio di sicurezza degli israeliani, senza mortificare la parte del Paese che vuole il ritorno degli ostaggi e la fine della guerra. I tempi potrebbero farsi difficili per Netanyahu che, per spingere il Paese sulla via della guerra perenne e dell’isolamento internazionale, è diventato anche un ricercato dalla giustizia internazionale. Ed è ora ridotto ad attendere l’insediamento di Trump come un estremo salvagente.