Durante il suo primo mandato presidenziale – dal 2017 al 2021 – Donald Trump dichiarava di voler passare alla storia come colui che è stato in grado di portare la pace in Terra Santa, impresa generalmente considerata come la più difficile al mondo. Notoriamente l’uomo non è uno che si sottovaluta, ma di sicuro immaginava di avere a disposizione otto anni ininterrotti alla Casa Bianca per conseguire il risultato. Come sappiamo, è andata diversamente. In ogni caso, le possibili soluzioni messe sul tavolo dalla sua amministrazione, sotto la regia del genero Jared Kushner, erano apparse troppo sbilanciate verso Israele perché i palestinesi potessero accettarle senza batter ciglio.
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Oggi il ritorno. Trump riprenderà il discorso da dove l’ha lasciato? Mentre i dirigenti politici palestinesi sono più alle corde di allora – dopo le sciagurate azioni di Hamas (e altri) del 7 ottobre 2023 –, tutti si interrogano su cosa accadrà in Medio Oriente dopo il secondo insediamento di Trump, in agenda il 20 gennaio 2025. Se negli Stati Uniti – a quanto risulta dalle analisi del voto – le preferenze della componente ebraica dell’elettorato sono largamente rimaste in campo democratico (a livello nazionale parliamo di oltre il 70 per cento dei voti), in Israele non pochi – a cominciare dai politici al governo – reputano che tutto sarà più facile con la nuova amministrazione repubblicana alla Casa Bianca.
Le certezze, tuttavia, non sembrano poi così granitiche. Scriveva il 10 novembre l’editorialista Herb Keinon sul quotidiano The Jerusalem Post: «Durante il suo primo mandato, Trump ha compiuto numerosi passi – dal trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, al riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan, alla mediazione degli Accordi di Abramo – che hanno dimostrato un allineamento senza precedenti con le priorità di Israele». Eppure, osservava il giornalista, «per quanto rassicuranti siano stati i gesti passati di Trump, il suo secondo mandato – e i suoi rapporti con Israele – saranno modellati da nuove circostanze, nuove priorità e nuove personalità intorno a lui». A proposito di personalità, le righe citate sono state scritte prima che venisse resa nota la lista di figure chiave del prossimo governo degli Stati Uniti, la cui fisionomia, giorno dopo giorno, si fa sempre più chiara.
L’influsso dei cristiani sionisti
Donald Trump si considera genericamente cristiano – non praticante – e presta molto orecchio alle istanze dei cristiani evangelicali, che lo hanno sostenuto nella passata esperienza presidenziale e lo hanno entusiasticamente votato il 5 novembre scorso. La loro lettura fondamentalista dell’Antico Testamento (non condivisa dalla Chiesa cattolica e da quasi tutte le altre Chiese e comunità cristiane presenti in Terra Santa) fa di loro dei ferventi sionisti. Sostengono idealmente e finanziariamente l’esperienza storica dell’attuale Stato di Israele perché la leggono come un compimento delle Scritture riguardo alla Terra promessa da Dio agli israeliti e come un viatico per accelerare la parusia, cioè il ritorno del Signore Gesù, trionfatore nella gloria, alla fine dei tempi. Non stupisce, dunque, che a Gerusalemme sulla facciata del museo Friends of Zion (Foz) – una delle espressioni della galassia sionista cristiana – campeggiasse nei giorni scorsi un gigantesco striscione di congratulazioni a Trump, con l’augurio che egli possa rendere grande (anche) Israele.
Ministri e ambasciatori
Dagli ambienti evangelicali protestanti proviene anche l’ambasciatore designato in Israele, Mike Huckabee, la cui nomina è stata resa nota nei giorni scorsi dallo staff di Donald Trump insieme a quelle dei ministri più importanti. La candidatura di Huckabee per questo incarico era già affiorata nel 2016, ma poi Trump aveva preferito designare David M. Friedman, avvocato e figlio di un rabbino dello Stato di New York, personalmente favorevole all’annessione di porzioni della Cisgiordania da parte di Israele.
Il pensiero del prossimo ambasciatore statunitense a Gerusalemme ora viene scandagliato dai media israeliani e arabi. Huckabee «lavorerà instancabilmente per la pace in Medio Oriente», assicura Trump. Di certo non è però un uomo al di sopra delle parti: con la Terra Santa – che ha visitato decine di volte – dice di avere un rapporto viscerale, prima che politico. La Bibbia è la sua bussola. Così, quando si riferisce alla Cisgiordania (West Bank, in inglese) preferisce usare i toponimi Giudea e Samaria. Consegnerebbe senza troppi ripensamenti quei territori palestinesi ad Israele in ossequio alle sue esigenze di sicurezza. Mike Huckabee riconosce che lo Stato ebraico occupa una terra, ma è precisamente la terra che Dio mise nelle mani degli israeliti migliaia di anni fa. Quando parla delle popolazioni indigene arabe le definisce «i cosiddetti palestinesi» (come fanno coloro che negano la consistenza storica del popolo palestinese, se non come entità immaginata e propagandata nel Novecento in contrapposizione al sionismo).
«2025, l’anno della svolta»
Non è un caso se a Gerusalemme politici come il ministro Bezalel Smotrich – dell’estrema destra sionista religiosa – ritengono, soddisfatti, che il 2025 possa essere l’anno giusto per l’annessione formale della Cisgiordania, del resto già ampiamente controllata, da 57 anni, dal ministero della Difesa israeliano. La sovranità israeliana implicherebbe, verosimilmente, la concessione di diritti politici limitati ai palestinesi che decidono di restare.
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D’altronde l’estrema destra israeliana ora vorrebbe prendersi anche la Striscia di Gaza e lavora per il ritorno dei coloni ebrei e la permanenza stabile delle truppe, anche quando saranno terminati bombardamenti e combattimenti. A questo scopo sono stati elaborati piani militari che prevedono di sgomberare dai gazesi tutta l’area della Striscia a nord del cosiddetto corridoio Netzarim – creato e presidiato dall’esercito israeliano – costringendo la popolazione civile a concentrarsi a sud o, meglio ancora, ad andarsene per sempre.
La soluzione dei due Stati? Solo fantasie
Ancor più della nomina dell’ambasciatore in Israele è quella del futuro segretario alla Difesa a campeggiare sulla stampa internazionale, per ragioni non solo politiche. Giornali e siti web si palleggiano la foto a torso nudo di Pete Hegseth, ex militare e ora giornalista dell’emittente televisiva Fox News (forse l’unica gradita a Trump). Sui tonici pettorali del 44enne futuro ministro spicca il tatuaggio di una grande croce di Gerusalemme (la stessa che vediamo sul mantello dei cavalieri e dame dell’ordine equestre del Santo Sepolcro, nonché sugli stemmi della Custodia di Terra Santa e del Patriarcato latino di Gerusalemme). Anche Hegseth, che giocherà un ruolo chiave nell’alleanza Usa-Israele, è un cristiano evangelico sensibile alla causa sionista e convinto – fa notare il quotidiano Haaretz – che la formula «due Stati per due popoli», come soluzione alla vicenda israelo-palestinese, non sia altro che parole vuote e avulse dalla realtà.
Considerati i fatti sul terreno, con i 700mila ebrei israeliani ormai stanziati a macchia di leopardo in Cisgiordania, la pensano così anche i molti – palestinesi e non – che propugnano l’affermazione di un unico Stato, laico, in Terra Santa, con uguali diritti per tutti i suoi abitanti. Il che comporterebbe il tramonto dello Stato ebraico creato nel 1948.
Usa-Israele, l’alleanza resta inossidabile
Con la deputata Elise Stefanik come nuova ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite ci sarà una conferma della copertura diplomatica che Washington assicura costantemente a Israele. I toni si faranno probabilmente più netti e aspri, ma non muterà la linea di fondo della Casa Bianca che spalleggia gli israeliani esercitando all’Onu il diritto di veto sulle risoluzioni o iniziative sgradite.
Inviato del presidente in Medio Oriente sarà l’uomo d’affari Steven Witkoff. È privo di esperienza diplomatica, ma agli occhi del presidente valgono e bastano i meriti imprenditoriali.
Alla carica di segretario di Stato – vale a dire ministro degli Esteri – è stato designato il conservatore Marco Antonio Rubio, un senatore cattolico 53enne di ascendenze cubane, in passato apertamente critico di Trump e suo avversario nella corsa per la nomination repubblicana nel 2016. Anche lui in politica estera ha sempre espresso sostegno per lo Stato di Israele e il suo diritto all’autodifesa.
Pure Michael Waltz, che Trump vuole come consigliere per la sicurezza nazionale, è uno strenuo sostenitore di Israele, convinto che sia il caso di lasciargli carta bianca per finire il lavoro sul campo contro Hamas e contro l’Iran e i suoi gregari. Secondo questa, illusoria, prospettiva, solo dall’uso estremo della forza verrà la pace…
Tra Bibi e Donald non tutto è rose e fiori
Il 6 novembre scorso, all’indomani del trionfo di Trump, il premier israeliano Benjamin Netanyahu è stato tra i primi a congratularsi. Peccato che avesse fatto altrettanto quattro anni prima con Joe Biden, di cui Trump contestava pervicacemente la vittoria. The Donald prese quelle congratulazioni all’avversario come uno sgarbo personale da parte del premier israeliano, con il quale aveva già avuto qualche dissapore – ben mascherato in pubblico – nel corso del suo mandato. Lo racconta nel suo libro Trump’s peace. The Abraham Accords and the reshaping of the Middle East (uscito nel 2022) il giornalista Barak Ravid, osservatore attento e ben informato degli intrecci politico-diplomatici tra Stati Uniti e Israele (prima per Haaretz, ora per Axios). Ravid ottenne un’intervista da Trump a Mar-a-Lago (Florida) nell’aprile 2021. Senza mai smentirle in seguito, l’ex presidente in quella circostanza utilizzò espressioni dure per esprimere il suo disgusto per Netanyahu (proprio a Mar-a-Lago Trump e il primo ministro israeliano – con l’inseparabile moglie Sara al seguito – si sono rivisti, dopo quattro anni, nel luglio scorso per riagganciare i ponti).
Nel suo documentato volume Barak Ravid racconta anche i retroscena del 28 gennaio 2020, il giorno in cui, alla Casa Bianca, il presidente Trump, con Netanyahu dimissionario al fianco, rese pubblico il suo «piano del secolo» per la pace in Terra Santa. Benché la proposta elaborata da Kushner avesse contenuti graditi agli israeliani, Netanyahu all’ultimo cercò di sfilarsi, salvo poi essere sul punto di proclamare unilateralmente l’annessione della Valle del Giordano, incoraggiato dall’ambasciatore Friedman. Furono Kushner e i suoi collaboratori a sventare quel colpo di mano, considerandolo una precipitosa mossa da campagna elettorale (gli israeliani sarebbero andati alle urne il successivo 2 marzo per eleggere un nuovo parlamento). Se la ricostruzione di Ravid – smentita dal partito Likud di Netanyahu, ma confermata da varie fonti a Washington – è corretta, un precedente già c’è che ammonisce a non dare tutto per scontato nelle relazioni future tra Israele e Stati Uniti.