Sokina, da una tenda beduina al fronte pacifista israelo-palestinese
Sedicesima figlia di una famiglia beduina, la 41enne Sokina Taoon è tra le attiviste del fronte favorevole ad un accordo di pace tra israliani e palestinesi protagoniste di una docu-serie trasmessa sul canale israeliano in lingua araba Makan.
Fino ad undici anni fa la 41enne Sokina Taoon, originaria di una tribù beduina dove ha vissuto un’infanzia senza bagni e corrente elettrica, non parlava neppure una parola di ebraico. Oggi, insieme a tante altre donne arabe israeliane, è tra le tessitrici di legami di cooperazione fra palestinesi ed ebrei dopo un anno di guerra a Gaza. Lo fa attraverso il suo impegno personale di attivista sociale che visita e cerca di consolare i familiari dei rapiti tenuti in ostaggio a Gaza e come manager di comunità nell’organizzazione Hand in Hand per l’educazione congiunta ebraico-araba in Israele. «Il mio obiettivo è esprimere la mia posizione insieme ai partner ebrei. Solo le nostre voci congiunte fanno sì che possa esprimere in modo autentico la mia personalità e il mio dolore, e costruire una realtà giusta ed equa per tutti» ha detto in un’intervista al quotidiano Haaretz.
La sua storia è al centro del documentario Her War (La sua guerra), trasmesso in questi giorni sul canale in arabo dell’emittente israeliana Makan. La serie, diretta da Ronen Zaretsky e Yael Kipper, propone al pubblico una narrazione diversa da quella propagata dalle autorità israeliane sulla necessità di proseguire la guerra: attraverso le voci di diverse donne palestinesi con cittadinanza israeliana e le loro visite alle famiglie delle vittime e degli ostaggi del 7 ottobre 2023, mostra che cosa ha comportato per loro e per chi da anni si batte per un accordo di pace tra israeliani e palestinesi l’attacco di Hamas e le sue implicazioni. «Sono contraria all’estremismo, agli omicidi, a tutta questa violenza che non porta soluzioni: guardate dove ci hanno portato le politiche fasciste. E Hamas compie degli atti inaccettabili contro la popolazione civile di Gaza, che soffre molto. Lo dico forte e chiaro, anche se alcune persone cercano di mettermi a tacere perché non sono interessate alla cooperazione fra israeliani e palestinesi. Qual è la soluzione se non promuovere un dialogo condiviso?».
La storia di Sokina è emblematica delle diverse identità incarnate dai cittadini palestinesi cresciuti nello Stato ebraico. Nata nel villaggio di Al-Dahara, in Galilea, nella tribù beduina degli Hujeirat, penultima di 17 figli, Sokina a 18 anni è stata data in moglie a un marito violento che l’ha quasi segregata in casa e dal quale solo dopo 13 anni di abusi è riuscita a divorziare. «Quando qualcuno vede la morte in faccia più di una volta, alla fine smette di avere paura. A trent’anni sono venuta via con tre bambini, senza lavoro, senza istruzione, senza parlare una parola di ebraico, niente di niente. Ma ho una grande fede in Dio e sono riuscita a superare tutto».
Nel giro di pochi anni Sokina si è laureata in Scienze politiche, ha ottenuto un Master in Politiche pubbliche all’Università di Haifa e negli ultimi cinque anni ha assunto un ruolo di primo piano nell’organizzazione Hand in Hand con la sua scuola bilingue in Galilea. Non stupisce perciò che dopo il massacro del 7 ottobre si sia sentita chiamata insieme a molte altre arabe israeliane a tenere aperti canali di dialogo proprio in virtù della doppia appartenenza al popolo palestinese e allo Stato di Israele. «Il mio lavoro adesso è ancora più significativo: seminare umanità e presentarsi come essere umano prima ancora che come araba o donna palestinese. Il mio dolore è duplice, ma non ci si può identificare con la sofferenza del mio popolo senza avvertire la stessa compassione per chi è stato vittima del 7 ottobre. Non sarebbe umano soffrire per gli uni e non allo stesso modo per gli altri».