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Nelle imprese sociali il volto della Palestina in piedi

Manuela Borraccino
4 ottobre 2024
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Nelle imprese sociali il volto della Palestina in piedi
Un gruppo di donne palestinesi prende parte a una delle iniziative dell'impresa sociale Ibtikar. (foto Ibtikar)

Corsi di formazione, micro-imprenditoria e tutoraggio nell’avvio di una professione. Sono i frutti dell’incubatore d’impresa Ibtikar, fondato a Betlemme dalla giovane imprenditrice Sulaima Ramadan. «L’obiettivo – dice – è formare donne e giovani che siano agenti di cambiamento».


«Non c’è solo la guerra a Gaza, con le carneficine sotto gli occhi di tutti. C’è anche un’altra guerra, meno visibile: è quella che combattiamo ogni giorno in Cisgiordania, lontani dai riflettori, per non soccombere alla violenza dell’esercito [di Israele] e dei coloni. Per sopravvivere e costruire una nazione palestinese equa, giusta, solidale e coesa». Parla così raggiunta via Zoom da Terrasanta.net l’imprenditrice 34enne Sulaima Ramadan, protagonista con la sua impresa sociale Ibtikar, («Innovazione» in arabo), della resistenza della società civile palestinese all’occupazione e alla crescente violenza nei Territori occupati: oltre 1.200 fra donne, ragazzi e bambini vengono raggiunti ogni anno dalle attività di formazione e avviamento alla micro-imprenditoria della sua azienda.

Classe 1990, discendente da una famiglia originaria di Gerusalemme, costretta nel 1948 a rifugiarsi a Betlemme, Sulaima parla con lo sguardo fiero dei suoi occhi neri e penetranti prima ancora che con il suo inglese impeccabile. «Sono figlia – racconta – di una cosiddetta coppia mista: mia madre è cristiana e mio padre musulmano. Mi considero una credente nell’unico Dio, senza particolari steccati. Non vedo divisioni fra queste due religioni: cerchiamo di valorizzare quello che ci unisce piuttosto che quello che ci divide. L’Università di Betlemme è stato un punto di svolta nella mia vita perché la formazione umana e accademica ricevuta mi ha aperto alla cittadinanza globale e mi ha offerto moltissime opportunità di lavoro e di crescita personale».

Suleima Ramadan (in secondo piano con la maglia a righe e la camicia di jeans) e alcuni collaboratori. (foto Ibtikar)

La sua storia è emblematica dello slancio personale e sul piano della cittadinanza attiva che l’alta istruzione può imprimere anche in condizioni di conflitto asimmetrico, come in Palestina. Dopo la laurea nel 2012 in Contabilità e amministrazione aziendale, nello stesso ateneo di Betlemme Sulaima ha conseguito, nel 2014, il Master in cooperazione internazionale e sviluppo. Già nel 2013 era entrata in un’azienda come contabile, ma aver a che fare coi numeri non le bastava: voleva «veder migliorare la vita delle persone». Nel 2014 ha risposto all’annuncio dell’impresa sociale Yes Theather di Hebron, con la quale ha avviato un progetto chiamato Puppets 4 Kids (Marionette per bambini). «L’obiettivo – spiega – era quello di aumentare il benessere psico-sociale di donne e bambini utilizzando il teatro delle marionette come modalità espressiva, dunque un progetto culturale che offriva delle opportunità di lavoro nei Territori grazie al sostegno finanziario di varie fondazioni di Paesi europei. L’idea ha avuto molto successo e mi ha offerto l’opportunità di formarmi a livello teorico e pratico attraverso il metodo dell’“imparare facendo”. Ho lavorato con loro per cinque anni. Poi ho avvertito che l’impresa poteva andare avanti anche senza di me e che avevo bisogno di nuovi stimoli».

Così, nel 2019, Sulaima ha fondato l’organizzazione non governativa Ibtikar per l’emancipazione e l’imprenditoria sociale, che oggi è una delle decine di organizzazioni guidate da donne che cercano di migliorare la condizione femminile in Palestina. «L’idea era quella di creare un incubatore che sostenesse la nascita di altre imprese sociali: perché io stessa – dice – ne ho sperimentato la mancanza. Ho pensato che un organismo di questo tipo fosse utile a chiunque intendesse lavorare per dare risposte nel proprio territorio a problemi collettivi. Ho lavorato con grande determinazione finché non ho ottenuto un primo finanziamento da una fondazione tedesca, e poi un altro da un ente svizzero e un altro ancora dall’Agenzia tedesca per lo sviluppo, poi da un’associazione statunitense che sostiene la causa palestinese. Da allora queste sono le principali realtà che ci permettono di lavorare e di rendere questo servizio economicamente sostenibile».

Da una parte, Ibtikar offre ai giovani corsi di formazione aziendale e consulenze per avviare e rafforzare l’innovazione sociale. Dall’altra, spiega Sulaima, sviluppa programmi di studio per insegnanti e studenti per aumentare la qualità dell’istruzione. «Quello che facciamo – rimarca – è ispirato dalla nostra realtà: dai bisogni che vediamo emergere nelle nostre comunità e ai quali cerchiamo di dare risposta. Vorremmo rendere i palestinesi capaci di usare la loro creatività per rispondere a questi bisogni e fare qualcosa di concreto per costruire una società più equa, giusta e solidale. L’aspirazione più alta è migliorare il benessere psicofisico di ogni singolo membro delle nostre comunità. Crediamo fortemente nel potere dell’istruzione per l’innovazione sociale e che garantire l’accesso all’istruzione di qualità generi benessere tra i giovani, le donne e l’intera comunità, contribuendo così a costruire una nazione forte che sia più inclusiva, empatica e coesa. La nostra realtà potrà cambiare solo se sapremo formare persone capaci di costruire questo cambiamento, anche aumentando la resilienza delle persone di fronte ad una realtà economica, sociale e politica estremamente dura, e che continuino il viaggio anche senza di noi».

Donne all’opera in un laboratorio organizzato da Ibtikar.

A questo sogno che ha aiutato in pochi anni molte decine di persone ad affrancarsi dalla povertà lavorano oggi cinque donne e un uomo, tutti under 30, 22 formatori part-time, 11 giovani divenuti Business Coach a tempo parziale. Come costruire concretamente questo nucleo di welfare generativo? «Uno dei nostri progetti più riusciti – spiega Sulaima – è quello delle marionette palestinesi, un progetto ispirato dalla tutela del nostro patrimonio culturale finanziato dal Giappone e dalla Banca mondiale e che ci ha permesso di raggiungere 35 donne disoccupate che oggi sono parzialmente impiegate dalla nostra organizzazione».

Gli operatori di Ibtikar hanno studiato come erano fatti quelli che fino al 1948 erano gli abiti tradizionali delle palestinesi, in particolare le diverse fogge e ricami a mano del thobe [una tipica tunica -ndr]. Hanno insegnato a un primo gruppo di 15 donne come potevano produrre da zero le proprie bambole e vestirle riproducendo quegli abiti, mentre cercavano di aiutarle a venderle. «Dall’inizio della guerra molte famiglie si sono ritrovate in difficoltà economiche molto gravi: tantissime donne ci hanno chiesto di aiutarle a trovare un lavoretto, qualsiasi cosa fosse, anche se retribuita solo 3 dollari al giorno. Così abbiamo formato altre 20 donne prive di introiti, e abbiamo insegnato loro come produrre le bambole, come ricamare i vestiti e cucirli su di loro».

Come riuscite a venderli? «È molto difficile, certo, ma facciamo del nostro meglio per riuscirci, soprattutto perché non abbiamo scelta: ci sono 35 famiglie che dipendono da noi. Cerchiamo di avvicinare chiunque in Europa e nel mondo intero, si tratti di enti o singoli benefattori che possano comprare questi pupazzi e sostenere il progetto».

Nel modello di Ibtikar, oltre al sostegno tecnico le donne beneficiarie ottengono un piccolo finanziamento per poter avviare la propria attività, che si tratti di mosaici, cosmetica, ricami, artigianato, preparazione di cibo a domicilio, produzione di saponi e di candele, ed Ibtikar assume un giovane che possa farle da tutor. «In tal modo – spiega Sulaima – entrambe le parti ricevono un beneficio: i giovani praticanti fanno esperienza e ricevono un piccolo compenso per il tirocinio, la donna riesce a far partire la sua attività. Cerchiamo il più possibile anche di coinvolgere le famiglie, affinché il progetto dell’aspirante imprenditrice diventi il progetto dell’intera famiglia e possano sostenersi reciprocamente, lei diventi un agente di cambiamento e anche un modello per altre donne, e si crei in tal modo un circolo virtuoso. Del resto non abbiamo alternative: avviare delle attività in proprio, di qualsiasi tipo, è l’unico modo per sopravvivere in una situazione che peggiora di giorno in giorno dal punto di vista politico, sociale, economico. Riteniamo che questo sistema di sostegno reciproco possa creare sicurezza per le donne e per le loro famiglie».

Su quali siano i suoi piani per il futuro, la voce di Sulaima si rompe per l’emozione, ma subito riacquisisce fermezza: «Sono sempre stata una persona ottimista, ma in quest’ultimo anno la mia difficoltà più grande è diventata conservare quella visione positiva del futuro che ho sempre avuto e che negli ultimi mesi sento vacillare. Il nostro dolore è grande: fino all’anno scorso eravamo in contatto con molte persone a Gaza: giovani, bambini e un gruppo di donne. Ora abbiamo perso i contatti con tutti loro e anche con i nostri tre volontari. Non sappiamo se siano vivi, né come possiamo raggiungerli e aiutarli. Il nostro timore è che se anche la guerra finisse sul terreno, non finirebbero gli interessi economici e politici che ci hanno portato a tutto questo. Ci siamo abituati a non controllare più alcun minimo aspetto delle nostre vite… Viviamo alla giornata, senza poter programmare nulla, senza poter fare progetti di nessun tipo poiché la violenza fisica o morale è onnipresente e nessuno di noi si sente sicuro neppure a casa propria. Nella guerra a Gaza la carneficina è sotto gli occhi di tutti, chiunque può aprire i siti Internet di tutto il mondo e ottenere informazioni. Ma c’è anche un’altra guerra, molto meno coperta dai media e non meno letale: è quella che combattiamo ogni giorno in Cisgiordania, fra le continue restrizioni ai movimenti e le uccisioni così frequenti e immotivate dei palestinesi. Chiediamo di documentare anche quest’altro fronte di guerra e quello di chi ogni giorno cerca di sopravvivere e aiutare a far nascere lo Stato di Palestina».

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