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A un anno dal 7 ottobre 2023, sotto le macerie il fiume carsico del dialogo

Giuseppe Caffulli
7 ottobre 2024
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A un anno dal 7 ottobre 2023, sotto le macerie il fiume carsico del dialogo
7 ottobre 2024. In un'abitazione del kibbutz Beeri, devastata durante i massacri di un anno fa, campeggia la foto di uno degli israeliani rapiti e trattenuti nella Striscia di Gaza. (foto Yonatan Sindel/Flash90)

Nell'ultimo anno in Terra Santa l’odio, la sete di vendetta, gli estremismi sono aumentati a dismisura. Le guerre di oggi aprono la strada a quelle future. Fortunatamente anche tra israeliani e palestinesi non viene meno la voce di chi cerca dialogo e pace.


Un anno è passato dal violento attacco di Hamas, l’organizzazione politica e militare palestinese di matrice islamista, contro alcune città e kibbutz israeliani nei pressi della Striscia di Gaza. Era il 7 ottobre 2023. Il raccapriccio per l’efferata azione di Hamas e di altri gruppi armati (con 797 civili e 379 militari uccisi, e 251 persone, di varie nazionalità, rapite) fece allora il giro del mondo, suscitando fortissima emozione e rabbia. La risposta militare orchestrata dal governo di Benjamin Netanyahu ha fatto finora, nella Striscia di Gaza, 41 mila vittime (in gran parte donne e bambini), oltre 100 mila feriti e 2 milioni di sfollati interni. E mentre si è aperto il fronte libanese, con gli attacchi iniziati in settembre contro Hezbollah, a Gaza City, a Khan Yunis e nelle altre località della Striscia si continua a morire, mentre l’emergenza umanitaria è sempre più pesante e i beni di prima necessità, oltre ai medicinali, scarseggiano.

A un anno di distanza non solo le operazioni militari non sono cessate, ma è difficile intravedere una qualsiasi strada negoziale che sia capace di porre fine alle ostilità. Ogni piccolo spiraglio per un cessate il fuoco, per una qualsiasi tregua, si è via via dissolto nella stanca liturgia di chi la pace non la desidera per nulla, da entrambe le parti. Di fronte, resta lo scenario di rovine materiali e morali prodotte in questi dodici mesi di guerra: vite spezzate, traumi personali e collettivi.

Ma più di ogni altra cosa, l’odio e la sete di vendetta aumentati a dismisura. Alimentati dalle armi e da narrazioni e prospettive che rendono davvero difficile uno scatto emotivo desideroso di cercare vie di uscita. Chi vive il conflitto (che abbia una responsabilità politica e militare, o che viva immerso nel clima di scontro perenne che si respira nel contesto israelo-palestinese), è come prigioniero. Non riesce ad alzare lo sguardo, a intravvedere una prospettiva che non sia quella dell’annientamento dell’altro.

Quale strada sarà allora mai possibile per dare una chance alla pace nel contesto israelo-palestinese?

Alcune considerazioni, a partire da quanto sta accadendo. Nessuno dei leader delle due parti è oggi in grado di uscire da questa logica dello scontro e della violenza. Serve dunque la capacità di immaginare strade nuove, con persone nuove.

Gli estremismi hanno preso piede a dismisura, hanno inquinato in profondità la società israeliana e quella palestinese: il nazionalismo ebraico da una parte (a cui dà voce la destra religiosa e i partiti dei cosiddetti coloni), il fondamentalismo islamico incarnato da Hamas e delle altre formazioni combattenti islamiche dall’altra. Serve la capacità di emarginare questi estremismi (che strumentalizzano la religione) e di ridare voce a chi crede che sia possibile la coesistenza.

Oggi chi fomenta la guerra in nome della sicurezza o della distruzione del nemico, sta di fatto preparando la strada alle future guerre. Nessuna delle due parti sparirà o avrà definitivamente il sopravvento. Solo chi accetta di confrontarsi, condividere e coesistere potrà realizzare un futuro di pace per sé e il proprio popolo.

Nelle società israeliana e palestinese, accanto a chi fomenta odio e vendetta, c’è un fiume carsico di uomini e di donne che credono nella pace. Sono voci che, nel dolore e nel sangue versato in questo anno, sono state spesso tacitate. Ma esistono e il loro messaggio risuona forte, se solo lo si voglia ascoltare. Sono singoli, piccoli gruppi, movimenti numerosi. Sono radunati in associazioni il cui lavoro ha eco anche fuori dai rispettivi Paesi. Sono le madri e i padri degli ostaggi, i fratelli e le sorelle di chi è morto sotto le bombe o negli scontri; sono giovani che non accettano la logica della violenza e della sopraffazione. Sono ebrei e arabi palestinesi, che lavorano insieme (spesso pagando di persona lo scotto di andare controcorrente) per un futuro migliore. Sono volti e persone che scendono in piazza, testimoniano e lottano (molte di queste storie sono anche raccontate nel recente libro di Chiara Zappa Gli irriducibili della pace (TS Edizioni, 2024).

Non sono anime belle, illusi, ingenui senza speranza. Sono, viceversa, persone pragmatiche, convinte che l’unico modo per vivere (non sopravvivere) sia quello di trovare i fili che uniscono e il coraggio di accettare le differenze. Quale altra strada è infatti possibile, se non quella della convivenza? L’alternativa è solo una guerra senza fine.

Mentre le bombe precipitano sul Libano e a Gaza ancora si muore, la loro testimonianza è preziosa, perché il loro sogno di pace è l’unico davvero capace di cambiare la realtà e di immaginare il futuro.

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