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Israeliani in azione, stravolgimenti in Cisgiordania

Giuseppe Caffulli
3 settembre 2024
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Israeliani in azione, stravolgimenti in Cisgiordania
Una ruspa blindata dell'esercito israeliano in azione in una via di Jenin, in Cisgiordania, il 2 settembre 2024. (foto Flash90)

In Giordania c'è preoccupazione per quanto sta accadendo alla popolazione palestinese della Cisgiordania con le scorribande dei coloni ebrei e le azioni dell'esercito israeliano. Le considerazioni di un accademico, docente di studi strategici ad Amman.


«Con il mondo preoccupato per la guerra in corso a Gaza, il governo israeliano sta sfruttando questa “distrazione” per intensificare la sua campagna repressiva contro i palestinesi in Cisgiordania, dove uccisioni, arresti e la distruzione sistematica delle infrastrutture sono in aumento. Questa campagna non si limita agli scontri armati, ma include anche demolizioni di case, confische di terreni ed espansione degli insediamenti, che esacerbano la sofferenza dei palestinesi e aumentano la pressione su di loro affinché lascino le loro terre».

Vista da Amman, la situazione nei Territori occupati palestinesi di Cisgiordania desta gravissima preoccupazione. Il 29 agosto scorso se ne è fatto interprete sul quotidiano The Jordan Times Hasan Dajah, professore di studi strategici presso l’Università Al Hussein Bin Talal della capitale giordana.

Mentre si susseguono incursione armate e bombardamenti su città come Nablus e Jenin – spiega il professor Dajah – «gli arresti di massa sono diventati una caratteristica importante, poiché le forze israeliane assaltano città e villaggi di notte e arrestano giovani uomini e donne, nel tentativo di sedare qualsiasi potenziale resistenza. Parallelamente, le infrastrutture in Cisgiordania vengono sistematicamente distrutte, e vi sono demolizioni di case, sradicamento di alberi e sabotaggio delle reti idriche ed elettriche, il che aggrava la crisi umanitaria e rende più difficile la vita quotidiana dei palestinesi. Attraverso queste misure, il governo israeliano cerca di imporre una nuova realtà sul campo, sfruttando lo stato di caos e la preoccupazione internazionale a Gaza, per espandere l’area di insediamento e ridurre lo spazio geografico disponibile per i palestinesi in Cisgiordania».

Che la guerra a Gaza, fin dal suo drammatico inizio, abbia contribuito a gettare un velo sulle azioni in Cisgiordania per mano dei coloni armati e dell’esercito, non è una novità. Oggi sembra sotto gli occhi di tutti che «queste politiche complicano ulteriormente la situazione nella regione e allontanano le prospettive di raggiungere qualsiasi soluzione giusta e pacifica». Di più: «La Cisgiordania sta assistendo a una pericolosa escalation della violenza per mano dei coloni israeliani e al conseguente sistematico spostamento dei palestinesi dalle loro terre».

L’esodo di massa dei palestinesi verso la Giordania, una sorta di nuova Nakba, è il vero incubo del regno hashemita, che più volte ha denunciato quella che ritiene una vera e propria strategia per svuotare i Territori al di là del Giordano dai loro abitanti palestinesi.

«I rapporti sui diritti umani – aggiunge il cattedratico – indicano che questi attacchi spesso avvengono sotto la protezione dell’esercito israeliano, il che rafforza il senso di immunità dei coloni e li spinge a continuare le loro azioni aggressive. Il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu ha annunciato politiche e misure legislative volte a legalizzare ed espandere le attività di insediamento. Tra queste politiche c’è una legge che consente la confisca di terreni palestinesi privati con il pretesto di “esigenze di sicurezza”, oltre a fornire finanziamenti e supporto logistico per la costruzione di nuovi insediamenti nel profondo della Cisgiordania. Queste misure riflettono chiaramente l’intenzione del governo israeliano di stabilire una nuova realtà di insediamento che mina ogni possibilità di stabilire uno Stato palestinese indipendente».

Le cronache di questi mesi danno conto di una situazione sul campo non nuova, ma che si sta rapidamente deteriorando. «Le autorità israeliane – spiega lo studioso – ricorrono a vari metodi per fare pressione sui palestinesi affinché lascino le loro terre, tra cui il rifiuto di rilasciare permessi di costruzione ai palestinesi e la demolizione delle case costruite senza autorizzazioni. Allo stesso tempo, agli insediamenti vengono concessi permessi di costruzione e di espansione facilmente e rapidamente, creando uno squilibrio che serve solo gli interessi dei coloni. In alcuni casi, intere famiglie palestinesi vengono sfollate da aree che le autorità israeliane considerano “zone militari chiuse” senza fornire loro alcuna alternativa abitativa».

Lo spostamento forzato dei palestinesi dalle loro terre – come spiegano i rapporti di associazioni israeliane come Peace Now e B’Tselem – non comporta solo la perdita delle proprie case, ma ha pesanti conseguenze sulla vita sociale ed economica. I palestinesi dipendono fortemente dall’agricoltura come principale fonte di sostentamento e, con la perdita delle loro terre, non sono in grado di garantire il loro sostentamento quotidiano. «Lo spostamento – precisa il professor Dajah – porta anche alla dispersione delle famiglie e alla disintegrazione delle comunità locali, poiché i palestinesi si trovano costretti a cercare nuovi luoghi di residenza lontano dalle proprie aree di origine. Questa frammentazione aggrava la crisi di identità e appartenenza tra le giovani generazioni che nascono e crescono in un ambiente di instabilità e ingiustizia».

Questo aspetto della politica israeliana, che ha tra i suoi alfieri i leader dei partiti dell’ultradestra, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ha come risvolto della medaglia un certo isolamento di Israele, «poiché aumentano le critiche della comunità internazionale per queste politiche che violano i diritti umani e minacciano la pace nella regione».

Tuttavia, Israele sembra non curarsene. Anzi: «Sembra continuare con le sue politiche senza considerare queste critiche, il che complica ulteriormente la situazione e allontana le prospettive di raggiungere qualsiasi futura soluzione politica. La continuazione di queste politiche porterà solo a più violenza e instabilità nella regione, e i palestinesi continueranno a pagare il prezzo più alto per queste politiche aggressive».

Sul versante della politica internazionale, il professor Dajah registra l’assenza di un vero impegno per raggiungere la pace tra Israele e Hamas e una normalizzazione dell’intera regione, a partire dalla Cisgiordania. «La comunità internazionale rimane tenuta ad assumere una posizione più ferma e severa. Non è più sufficiente rilasciare dichiarazioni di condanna e denuncia; piuttosto, la situazione richiede un’azione effettiva per attivare risoluzioni internazionali che affermino i diritti dei palestinesi sulle loro terre e condannino le operazioni di espansione degli insediamenti che costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale».

E poi serve un coinvolgimento serio e fattivo da parte dei Paesi arabi e islamici, che «dovrebbero anche intensificare i loro sforzi diplomatici per sostenere la causa palestinese a tutti i livelli, usando la propria influenza politica ed economica per fare pressione sulla comunità internazionale affinché assuma posizioni più ferme e smascheri le pratiche israeliane all’opinione pubblica mondiale. Questi sforzi non dovrebbero essere stagionali o legati a eventi specifici, ma dovrebbero far parte di una strategia sostenibile per sostenere i diritti dei palestinesi».

«L’escalation della violenza dei coloni e le politiche di sfollamento in Cisgiordania – conclude l’accademico – rappresentano una minaccia non solo per i palestinesi, ma per qualsiasi futura possibilità di pace nella regione. Finché la giustizia internazionale continuerà ad essere assente, l’occupazione e gli insediamenti rimarranno i maggiori ostacoli al raggiungimento delle aspirazioni del popolo palestinese alla libertà e all’indipendenza».

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