Le elezioni del 10 settembre scorso in Giordania hanno decretato un significativo balzo in avanti del Fronte d’azione islamico (Iaf), il braccio politico dei Fratelli musulmani in Giordania, che ha ottenuto 31 seggi su 138 (i suoi deputati erano 10 nella legislatura appena conclusa e iniziata nel 2020; 16 dopo le elezioni del 2016 – ndr). L’Iaf è diventato così il primo partito della Camera dei rappresentanti del parlamento bicamerale di Amman (il Senato è composto da 65 membri, tutti nominati dal sovrano).
«Il popolo giordano ci ha dato fiducia votando per noi. Questa nuova fase aumenterà il peso della responsabilità del partito nei confronti della nazione e dei nostri cittadini», ha dichiarato in una intervista all’emittente Al Jazeera Wael al Saqqa, leader del partito premiato alle urne.
Il peso della questione palestinese
Nel contesto della crisi mediorientale, come collocare il risultato elettorale di una fazione che non fa mistero del suo sostegno a Hamas?
In un commento sul portale di Chatham House, il centro studi britannico specializzato in analisi geopolitiche, Isabel Rosenbaum fa notare come sarebbe stato impensabile che la guerra in corso a Gaza non potesse influenzare le elezioni nel regno hashemita di Giordania, con implicazioni significative anche per la sua sicurezza e stabilità. «La Giordania – osserva Rosenbaum – è uno dei Paesi più influenzati dal conflitto e dalle tensioni regionali. Il regno e i palestinesi sono intimamente legati dal punto di vista storico, culturale e politico e ogni evento in Palestina, buono o cattivo che sia, si riverbera in tutta la Giordania. Anche le relazioni di Amman con Israele sono state messe a dura prova dalla guerra, con il re e gli alti funzionari governativi che hanno condannato fermamente Israele per le sue azioni nei Territori palestinesi occupati. Allo stesso tempo, il Paese è diventato un’arena per le tensioni regionali tra Israele e i suoi alleati e i gruppi armati dell’“asse della resistenza”, che recentemente hanno portato alla morte di personale dell’esercito statunitense in territorio giordano».
Non a caso il partito islamista, nelle elezioni appena concluse, ha fatto dell’opposizione all’invasione israeliana di Gaza il fulcro della sua campagna elettorale, ottenendo un risultato che gli dà obiettivamente maggior peso all’interno del parlamento giordano, anche se il governo mantiene una maggioranza sostanziale, dato che due partiti ad esso alleati hanno ottenuto complessivamente circa 70 seggi. In più i deputati indipendenti e quelli che rappresentano i partiti minori (oltre ai deputati selezionati in base alle quote di rappresentanza su base clanica), sosterranno le politiche del governo.
Un nuovo segnale di protesta
Nessun significativo scossone, dunque, per Amman e per la politica filo-occidentale portata avanti da re Abdallah, che – fedele alleato di Washington – ha impegnato i sistemi di difesa giordani contro i missili e droni lanciati dall’Iran verso Israele in aprile.
Piuttosto un segnale, l’ennesimo, della rabbia dell’opinione pubblica per l’aggressione israeliana nella Striscia di Gaza, dove sono state uccise ormai ben oltre 40mila persone. Non va dimenticato che una buona parte dei cittadini giordani è di origine palestinese (lo è la stessa regina Rania). E la guerra contro Hamas a Gaza e la repressione del governo israeliano nella Cisgiordania occupata hanno portato in piazza, ripetutamente, folle di manifestanti. Centinaia dei quali sono stati arrestati.
Lo stesso re Abdallah ha definito insopportabili le sofferenze a Gaza ed è tra coloro che premono per un cessate il fuoco. Non ha mai smesso di sostenere la necessità di uno Stato palestinese accanto a Israele. Ma soprattutto ha denunciato la condotta di Israele nel conflitto e ha affermato che qualsiasi trasferimento di palestinesi dalla Cisgiordania alla Giordania equivarrebbe a una dichiarazione di guerra.
La politica estera filo-occidentale non cambia
Il risultato delle elezioni fa intendere però che la politica del monarca e del governo nel contesto della crisi israelo-palestinese non è stata percepita come sufficientemente forte e ha avuto un successo limitato. Il voto per il partito espressione della Fratellanza riflette insomma una crescente sfiducia nell’opinione pubblica verso le istituzioni. Fino a quando questo divario che si sta creando tra monarchia ed esponenti dell’islam politico sarà sostenibile per il Paese? Oggi sembra questa la vera questione.
Secondo la Missione di osservazione elettorale dell’Unione europea in Giordania, la tornata elettorale si è svolta sostanzialmente in maniera corretta e trasparente. Hanno votato 1 milione e 600 mila giordani, il 32 per cento degli aventi diritto. Seppur in leggero aumento rispetto alle elezioni precedenti, è difficile non leggere la scarsa affluenza come il chiaro segnale di un elettorato disilluso, nonostante le innegabili aperture democratiche del governo.
Alcuni analisti fanno notare come la bassa affluenza potrebbe anche riflettere la percezione (reale) che il Parlamento non eserciti un ruolo diretto nella definizione della politica estera (e quindi nel rapporto con Israele), che secondo la Costituzione è supervisionata dal monarca.
In un contesto simile di disillusione e malcontento, la Fratellanza musulmana, incarnata dal Fronte d’azione islamico, non smette di puntare il dito sulle colpe dello «Stato sionista», sulle risposte del governo giordano (ritenute deboli e inefficaci), su corruzione interna, povertà, mancanza di lavoro e reti socio-assistenziali di sostegno per i meno abbienti. E potenzialmente si propone come forza capace di sovvertire uno dei Paesi più stabili del Medio Oriente.
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