Finora erano tre, adesso sono quattro.
Stiamo parlando degli obiettivi ufficiali della guerra d’Israele contro Hamas, stilati dal gabinetto di sicurezza del governo Netanyahu, che ha aggiornato i suoi obiettivi ufficiali per la guerra in corso a Gaza, includendo l’obiettivo del rientro degli sfollati lungo le aree di confine in seguito agli attacchi del gruppo terroristico libanese Hezbollah. Prima di lunedì scorso (16 settembre) gli obiettivi del dopo 7 ottobre erano questi: l’eliminazione delle capacità militari e di governo del gruppo terroristico palestinese; il ritorno di tutti gli ostaggi; la garanzia che Gaza non costituisca più una minaccia per Israele.
A quale punto sia questa strategia, è difficile da dire, visto che Hamas sembra resiliente e che, da dicembre in qua, gli ostaggi in Israele sono tornati per lo più da morti, scatenando una profonda ondata di rabbia popolare in tutte le città del Paese.
Stando a fonti ufficiali si ritiene che 97 dei 251 ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre siano ancora a Gaza, compresi i corpi di almeno 33 morti.
Hamas aveva liberato 105 civili (in cambio della scarcerazione di detenuti palestinesi nei penitenziari israeliani) durante una tregua di una settimana alla fine di novembre. Quattro ostaggi erano stati rilasciati in precedenza, mentre otto sono stati salvati dalle truppe di terra dispiegate nella Striscia. I militari hanno anche recuperato i corpi di 37 ostaggi, di cui tre uccisi per errore dai militari mentre, cercavano di sfuggire ai propri rapitori.
In questo quadro tutt’altro che lusinghiero, la mozione del gabinetto circa il ritorno degli sfollati arriva a 11 mesi di distanza dall’esodo di decine di migliaia di residenti del nord che hanno dovuto lasciare le loro case in seguito agli attacchi di Hezbollah in risposta ai raid israeliani su Gaza. Gli sfollati, almeno 60 mila, sono stati in gran parte ospitati in alberghi in altre aree del Paese, a spese dello Stato.
L’onta dei cercapersone assassini
L’aggiunta del quarto obiettivo si colloca mentre l’inviato speciale degli Stati Uniti Amos Hochstein è in Israele per tentare nuovamente di raggiungere una soluzione diplomatica ed evitare così una un’ulteriore, possibile escalation. Ma anche nelle stesse ore in cui in Libano e in Siria (è il pomeriggio del 17 settembre) vengono fatti esplodere centinaia di cercapersone in dotazione a esponenti di Hezbollah, all’interno dei quali sarebbe stato nascosto materiale esplosivo. Fabbricati, a quanto parrebbe, in Ungheria su licenza della Gold Apollo di Taiwan, i cercapersone (che funzionano con le normali frequenze radio e non con le reti a cui si collegano i telefoni cellulari – ndr) erano stati ordinati da Hezbollah proprio per sottrarsi al rischio che gli appartenenti alla formazione sciita filo-iraniana venissero identificati dai servizi segreti israeliani (tramite la tecnologia Gps degli smartphone). I dispositivi esplosi sarebbero stati manomessi prima di arrivare in Libano (o forse a Beirut), impiantando pochi grammi di materiale esplosivo accanto alla batteria di ogni cercapersone e incorporando un interruttore che poteva essere azionato a distanza. Il ministro della Sanità libanese ha dichiarato che sono decedute nell’attacco almeno 12 persone, mentre i feriti – molti dei quali ci hanno rimesso la vista – sono oltre 2.700. Un centinaio gli ospedali che, in tutto il Paese, hanno fornito assistenza medica d’urgenza.
Hezbollah ha accusato Israele di aver orchestrato l’attacco. Da parte sua Israele non ha commentato l’attacco, né ha ammesso di esserne il mandante.
Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah terrà nel pomeriggio del 19 settembre un discorso nel quale cercherà di ricompattare il movimento e di dare indicazioni sulla linea da prendere. All’indomani dell’esplosione simultanea dei cercapersone, che suona molto umiliante, resta da capire quale risposta potrà arrivare da Hezbollah, che possiede un enorme arsenale di razzi e dotazioni d’artiglieria. Anche Teheran e le milizie sciite alleate nell’intera regione (come già si teme da diverse settimane) potrebbero essere coinvolti nella mischia, accendendo la miccia di una guerra regionale.
Freme il fronte libanese
Nei colloqui avuti con il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant (che fonti di stampa danno in imminente uscita dal governo per i continui dissapori con il premier Benjamin Netanyahu) Hochstein ha espresso la posizione dell’amministrazione Biden al proposito: una grande offensiva israeliana contro Hezbollah, più che risolvere la situazione, aumenterebbe il rischio di una guerra su vasta scala. E non porterebbe al ritorno degli sfollati. La soluzione sta piuttosto in un accordo con Hezbollah e in un cessate il fuoco a Gaza.
Dal canto suo, il primo ministro Netanyahu ha spiegato a Hochstein che non ritiene possibile il ritorno dei 60 mila sfollati del nord «senza un cambiamento fondamentale della situazione della sicurezza». Fuor di metafora, senza un’importante operazione militare in Libano. A questo starebbero lavorando da settimane i vertici militari d’Israele, secondo fonti di stampa.
Dopo l’operazione di ieri, che ha mostrato come l’intelligence israeliana sia in grado di beffare Hezbollah con un’azione che ha destato clamore a livello mondiale, si attendono ulteriori sviluppi.