Dopo il raid israeliano, il patriarca Pizzaballa fa visita alla parrocchia di Jenin
(g.s.) – Martedì 10 settembre il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, si è recato nel campo profughi palestinese di Jenin, in Cisgiordania, accompagnato dal vicario generale mons. William Shomali e da una piccola delegazione della curia patriarcale. L’intento della breve visita era di dimostrare vicinanza e solidarietà alla piccola comunità cattolica locale, pochi giorni dopo un raid militare israeliano – durato vari giorni e motivato da intenti anti-terrorismo – che ha causato devastazione in alcune strade ed edifici del centro urbano (marginalmente è stata danneggiata anche la parrocchia).
Già nel luglio 2023 il patriarca latino aveva raggiunto Jenin in circostanze simili. Ora la situazione è certamente peggiorata.
Nel corso di quest’ultimo sopralluogo il cardinale e i suoi accompagnatori hanno potuto constatare personalmente l’entità dei danni, ma soprattutto ascoltare i parroci di Jenin e di altri centri vicini, come Zababdeh e Nablus. Con loro anche alcuni fedeli laici, che hanno espresso al patriarca le proprie preoccupazioni per il futuro delle famiglie, in particolare per la mancanza di lavoro e per una situazione di inimicizia tra i due popoli della Terra Santa che sembra sempre più inconciliabile. Padre Amer Jubran, il parroco di Jenin, ha ringraziato a nome di tutti il patriarca e la sua curia per la continua sollecitudine e attenzione, mentre il cardinale Pizzaballa ha incoraggiato i suoi a restare saldi, uniti e resilienti. Ciò che è stato distrutto verrà ricostruito – ha detto – e anche in questi tempi difficili non bisogna scoraggiarsi o disperare.
Tra il 7 ottobre 2023 e il 2 settembre scorso, calcolano fonti Onu – come l’Unrwa e l’Ufficio di coordinamento per le questioni umanitarie (Ocha) – 652 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Non tutti costoro erano pericolosi terroristi o insorti in armi contro gli israeliani. L’Unicef conta tra le vittime 150 minori, uccisi prima del 22 luglio scorso. Morti che sono in parte da imputare ad azioni dei coloni israeliani (tollerate o avallate dai militari) e in parte a raid di terra o bombardamenti aerei dell’esercito dello Stato ebraico.
Il recente raid su larga scala a Jenin e in altri centri cisgiordani è iniziato il 27 agosto scorso e si è protratto per una decina di giorni. Col pretesto della caccia ai nemici in armi sono state distrutte strade, condutture dell’acqua potabile, reti fognarie ed elettriche, e demolite alcune abitazioni.
Intanto da mesi un organismo umanitario come B’Tselem (Centro israeliano di informazione per i diritti umani nei Territori occupati) denuncia che sono ormai 19 le (piccole) comunità o accampamenti arabo-palestinesi sradicate a forza dai coloni ebrei negli ultimi mesi. Si parla complessivamente di 1.123 persone (168 famiglie, con 436 minori) costrette a sloggiare.
I coloni sono oltretutto più agguerriti che mai. Cavalcano la paura, lo choc e il senso di rivalsa avvertiti dai connazionali dopo il 7 ottobre 2023 e sono stati i principali beneficiari della distribuzione di armi alla popolazione civile, voluta e promossa dal ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir in seguito agli eccidi del «sabato nero» firmati da Hamas e da altre milizie palestinesi della Striscia di Gaza ormai un anno fa.