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«Restare è la nostra chiamata»

Giuseppe Caffulli
26 agosto 2024
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«Restare è la nostra chiamata»
Una porzione del popolo cristiano della Terra Santa, qui al termine di una celebrazione nel santuario di Emmaus-Qubeibeh nell'aprile 2024. (foto CTS)

È trascorso quasi un anno dal terribile 7 ottobre 2023 che ha segnato la storia recente della Terra Santa, con lo scoppio della guerra tra Israele e Hamas. Un conflitto che rischia di favorire una nuova diaspora dei cristiani dai Luoghi Santi.


In un videomessaggio diffuso il 22 luglio scorso su X (ex-Twitter) il tono è accorato. Il patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha indirizzato ai fedeli delle parrocchie della diocesi, in particolare quelle in Israele e Palestina, un appello a non abbandonare la propria terra. «La situazione qui è davvero difficile – ammette il patriarca –. La Terra Santa non è un posto semplice. Ci sono tante sfide per tutti, specie oggi per le famiglie che hanno figli piccoli o per chi vuole costruire una famiglia. E la tentazione è quella di trovare altrove una vita più semplice per sé e i propri cari. Voglio dire a tutti costoro: è vero! Ci sono posti dove è più facile vivere. Ma come cristiani abbiamo ricevuto una chiamata a vivere in questa terra e non lo possiamo dimenticare. Dobbiamo dare un contributo di speranza alla nostra società. Una speranza che non viene da fuori, ma prima di tutto risiede nel nostro cuore. Da qui deriva la ragione di speranza che dobbiamo offrire ai nostri figli per non abbandonare la nostra terra».

Dopo il 7 ottobre 2023 anche per i cristiani sono arrivati tempi bui. Dopo gli anni del Covid-19, che ha fiaccato pesantemente l’economia e ha gettato sul lastrico intere famiglie, specie quelle cristiane di città la cui economia è fortemente dipendente dal turismo religioso, come Betlemme, ora la guerra tra Israele e Hamas, con le sue infinite ripercussioni, sta spingendo i cristiani specialmente dei Territori occupati, a una nuova, dolorosa diaspora.

Ce ne aveva parlato subito dopo l’inizio della guerra fra Rami Asakrieh, parroco della parrocchia latina di Betlemme, lamentando la sua impotenza di fronte alla decisione di intere famiglie di lasciare, appena possibile, la Palestina. I pochi cristiani rimasti a Gaza, specie i giovani, guardano ormai all’emigrazione come a un’ancora di salvezza. In altri centri e villaggi della Cisgiordania, come Taibeh, la violenza dei coloni degli insediamenti e degli avamposti sta creando una situazione insostenibile. Il blocco dell’economia, con la revoca dei permessi di lavoro in Israele per decine di migliaia di lavoratori palestinesi, la tragedia di Gaza, che ha creato morte e distruzione e ha allargato il fossato d’odio tra i popoli che abitano questa terra, stanno facendo il resto.

Restare in Terra Santa è una vocazione, come ha sottolineato il patriarca. Oggi come non mai. Una vocazione che richiede sacrificio e che va compresa dai cristiani locali, certamente, ma sostenuta dai cristiani di tutto il mondo attraverso la presenza, i progetti, gli aiuti economici. Ma soprattutto attraverso la preghiera che, sola, è capace di alimentare la speranza che è in noi.

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