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Gli yordim, israeliani che scelgono l’emigrazione

Augustin Bernard-Roudeix
22 agosto 2024
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Gli <i>yordim</i>, israeliani che scelgono l’emigrazione
Der Kibbuz, un ristorante di Berlino gestito da israeliani. Sarebbero da 10 a 20mila i cittadini di Israele che vivono nella capitale tedesca. (Foto Chen Leopold/flash90)

Di fronte alle politiche del governo più di destra della storia del loro Paese e alla catastrofe della guerra a Gaza, molti israeliani stanno pensando di trasferirsi all'estero o lo hanno già fatto. La rivista francese Terre Sainte ha raccolto le voci di alcuni di questi yordim, uniti da una profonda preoccupazione per il futuro di Israele.


«Non lasciare il Paese!» In un messaggio pubblicato su X (ex Twitter) nel giugno 2024, l’ex primo ministro dello Stato ebraico Naftali Bennett ha sottolineato un fenomeno che suscita interrogativi in Israele: la crescente emigrazione dei suoi cittadini. Bennett racconta del suo incontro con un giovane ingegnere in partenza per l’Europa: «Stiamo attraversando i momenti più difficili dal 1948 e dalla guerra d’indipendenza. Abbiamo bisogno di tutti i talenti di questo Paese per rilanciarlo. I prossimi 50 anni saranno anni di ricostruzione, creatività, gioia, sicurezza e crescita».

Questa ingiunzione è accolta con fastidio da Mikael: «Non capisce nulla della situazione nel Paese. Teme che tutti se ne vadano, ma farebbe meglio a chiedersi perché siamo arrivati ​​a questo punto! Come politico ed ex primo ministro, Bennett è uno dei responsabili». Nato in Israele 44 anni fa, Mikael è il fondatore e direttore di Mazkeka, un importante centro culturale di Gerusalemme. Oggi sta completando i preparativi per la sua partenza verso la Francia o la Svizzera, di cui ha la nazionalità, oppure la Thailandia, dove ha trascorso alcuni mesi dopo il 7 ottobre. La guerra in corso tra Israele e Hamas è stata la prova ultima per questo critico di lunga data delle politiche israeliane: «Questa guerra non è una sorpresa, Hamas è il risultato prevedibile della vita atroce imposta da Israele ai palestinesi. Sono rimasto sorpreso dalla portata dei crimini commessi il 7 ottobre, ma la reazione dell’apparato israeliano è assolutamente sproporzionata! Questo governo mi disgusta e non voglio più essere israeliano».

Allo choc per l’ennesima guerra si aggiunge un clima politico sempre più pesante per questo sostenitore della pace: «Nel mio centro ho organizzato la proiezione di un documentario su un collettivo formato da artisti israeliani e gazesi che mantengono un legame, nonostante tutto. Sono stato minacciato e accusato di essere un sostenitore del terrorismo. Il Comune di Gerusalemme mi ha detto che non era sicuro se avrebbe continuato a sovvenzionarmi, a causa delle pressioni. Faccio tutto il possibile per unire le persone, ma non voglio più vivere in questo Paese».

Ebrei che «salgono» e «scendono»

Mikael è un futuro yored. A differenza degli olim (nuovi arrivati ​​che «salgono» in Israele), gli yordim «scendono» per stabilirsi all’estero. Questo termine resta peggiorativo in Israele, dove le successive ondate di olim, spinte dal desiderio di costruire il Paese, costituiscono uno dei pilastri della storia nazionale. Elizabeth Garreault, vissuta in Israele per 30 anni e futura yoredet, fu per un certo periodo d’accordo con questa idea: «Non ero una delle più entusiaste di Israele quando arrivai, ma è proprio perché c’erano molte cose da costruire che sono rimasta», racconta questa sessantenne, impegnata a sinistra e che si occupa del sostegno a giovani in difficoltà. Se, da una parte, rimane attaccata a una società israeliana che ha saputo dimostrare la sua solidità dopo lo choc del 7 ottobre, dall’altra, non si sente più in sintonia con la direzione politica presa dal Paese. «La demografia di Israele porta matematicamente alla marginalizzazione della sua popolazione liberale. Tra un decennio gli ultraortodossi e i sionisti religiosi saranno la maggioranza e la società si frantumerà», afferma.

Elizabeth evoca anche la perdita di speranza nel progetto sionista a partire dagli anni 2000, le violenze della seconda intifada (2000-2005 – ndt) e uno stato di esaurimento psicologico: «Viviamo in una situazione di guerra permanente, latente o aperta. Perché continuare a infliggersi una simile tragedia e passare di disgusto in disgusto? La mobilitazione contro il progetto di riforma giudiziaria mi ha dato un po’ di speranza, ma Tel Aviv è una bolla lontana dal rappresentare Israele oggi». Fatta questa osservazione, Elizabeth aspetta che il suo compagno vada in pensione per iniziare una nuova vita in Grecia, in Portogallo o forse in Australia.

Nella riforma della Corte suprema le premesse di una crisi politica

La crisi politica aperta nel gennaio 2023 dal piano del governo di limitare le capacità di azione della Corte suprema è stata una scossa elettrica per molti israeliani attaccati a un sistema democratico liberale. Secondo un sondaggio realizzato dal canale tivù Channel 13 nel luglio 2023, il 28 per cento della popolazione pensava di lasciare il Paese in caso di indebolimento di questo contropotere nei confronti del governo più di destra della storia del Paese.

Rebecca (nome di fantasia), musicista che ora vive in Svezia, riflette lo sgomento di questa popolazione: «Ho preso la decisione di partire in seguito al progetto di riforma. La mia partenza era prevista per la fine del 2023, ma il 7 ottobre ha affrettato le cose». Figlia di una coppia israelo-svedese, ha sempre mantenuto un rapporto complesso con un Paese dove era arrivata quando aveva 10 anni: «La strada che sta seguendo Israele mi ha sempre fatto arrabbiare, anche se resta la mia casa e la mia vita. Avendo doppia cittadinanza, ho avuto la tendenza a reprimere questa parte della mia identità, ma dopo il 7 ottobre non è più così. Anche se ho lasciato Israele, non mi sono mai sentita così tanto israeliana». Come Elizabeth, Rebecca «non vede un futuro per la popolazione liberale» e presenta la sua partenza come una decisione ponderata a lungo: «Restare è stata una scelta difficile, rinnovata ogni anno da quando sono maggiorenne. Amo questo popolo e l’intensità della sua vita culturale ma, a meno che non ci sia un cambiamento politico radicale, temo un’intensificazione dei conflitti con i Paesi vicini e delle fratture all’interno della popolazione».

A queste preoccupazioni, alimentate dal contesto politico, si possono aggiungere ragioni economiche. Sebbene Israele mostri buoni indicatori di crescita e sviluppo, è anche molto diseguale e con un costo della vita tra i più alti tra i Paesi sviluppati. Sono i motivi che presenta Esther (nome di fantasia), regista 29enne che ha lasciato Israele per l’Europa nel 2022: «Oggi vivo a Parigi dove la vita è cara, ma lì posso almeno portare avanti la mia carriera artistica senza dover svolgere più lavori contemporaneamente. Non avevo altra scelta a Tel Aviv». Non riesce a immaginare di tornare a vivere in Israele, nonostante le difficoltà poste dalla mancanza di una seconda nazionalità europea: «Amo Gerusalemme, amo Tel Aviv, ma credo che quello che mi piaceva lì faccia parte del passato. Osservo da lontano una società sempre più violenta, religiosa e lontana dai suoi riferimenti occidentali».

L’ondata migratoria dopo il 7 ottobre non ha avuto luogo

Quanto è grande la yerida (la discesa)? Non sorprende che l’amministrazione israeliana non pubblichi dati su un fenomeno che va contro la sua promozione dell’aliya (l’ascesa). Le recenti statistiche compilate dall’Autorità per la popolazione e l’immigrazione possono, tuttavia, far luce sull’argomento: lo studio degli ingressi e delle uscite dal Paese tra luglio 2023 e aprile 2024 rivela un differenziale negativo di quasi 500mila partenze. Queste cifre contraddicono il discorso ufficiale tenuto subito dopo il 7 ottobre: ​​il ritorno in massa dei cittadini israeliani per unirsi ai loro reggimenti, tenere a galla l’economia del Paese e consolidare una società scossa dalla catastrofe.

Durante questo periodo si sono osservati ritorni significativi, ma il mese di ottobre è tradizionalmente un periodo favorevole per il rientro dalle vacanze all’estero. Questi flussi sono continuati nei primi mesi di guerra prima di un’inversione di tendenza nel mese di febbraio: durante questo mese si è osservato un differenziale negativo di 20mila uscite dal territorio fino a raggiungere la cifra di 500mila uscite nette nell’aprile 2024.

Attualmente è difficile stimare il numero di partenze che si tradurranno in una sistemazione a lungo termine all’estero. I dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano relativi al 2022, tuttavia, indicano che 60mila cittadini che hanno lasciato il Paese in quell’anno non sono tornati nel 2023. Una cifra in aumento rispetto a quella degli anni precedenti, che si aggirava intorno ai 40mila.

Questa tendenza è confermata da Sylvie, arrivata in Israele nel 1992 «per amore di questo Paese e spinta dal desiderio di dare il mio contributo». Ora in pensione, ha intenzione di trascorrere sempre più tempo fuori da un Israele «dove tutto è andato di male in peggio dal 1995 e dall’assassinio di Yitzhak Rabin». Descrive la costruzione di una comunità di israeliani espatriati in un paesino del Nord Italia che visita regolarmente: «Alla fine del 2002 vivevano lì solo poche decine di persone, oggi vi si sono stabilite 17 famiglie e altre 38 possiedono una casa. La comunità è in crescita e il suo gruppo WhatsApp è sempre più richiesto da persone interessate o in cerca di informazioni. Un altro esempio è la continua crescita della comunità israeliana a Berlino».

L’immigrazione di ebrei dalla diaspora con l’obiettivo di stabilirsi in Israele non è stata sufficiente a riequilibrare questo fenomeno. Da gennaio 2024 sono stati registrati appena 2.500 nuovi arrivi al mese, un calo del 43 per cento dal 7 ottobre, secondo i dati pubblicati dall’Agenzia ebraica.

La grande ondata di immigrazione prevista dal governo non c’è stata, nonostante l’esplosione di discorsi e atti di antisemitismo all’estero, in seguito all’invasione militare della Striscia di Gaza. Eloquente è anche un ricerca del marzo 2024, condotta dall’Università ebraica di Gerusalemme per l’Organizzazione sionista mondiale: in questo sondaggio effettuato su un campione di cittadini israeliani residenti all’estero, l’80 per cento dei 1.713 intervistati ha dichiarato di non avere intenzione di tornare a stabilirsi in Israele.

Sebbene la yerida sia ancora poco studiata, è chiaro che riguarda principalmente una popolazione istruita, collocata a sinistra dello spettro politico. La stampa israeliana aveva, in particolare, raccontato il desiderio di partenza dei medici causato dalla crisi della riforma della Corte suprema e, più recentemente, durante il dibattito sulla coscrizione obbligatoria delle popolazioni ultraortodosse. Quando Israele festeggerà il suo centenario tra 24 anni, c’è da temere che un Paese abbandonato da parte delle sue forze vive sarà molto diverso dall’Israele «fondato sui principi di libertà, giustizia e pace e che garantisce una completa uguaglianza sociale e politica a tutti i suoi cittadini», proclamato il 14 maggio 1948 da David Ben Gurion.


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