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Gli irriducibili di Zochrot non rinunciano al dissenso

Giulia Ceccutti
9 agosto 2024
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Gli irriducibili di <i>Zochrot</i> non rinunciano al dissenso
Un gruppo di persone partecipa alla visita guidata organizzata da Zochrot alla cittadina di Lod (Lydd), circa a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme. (foto Nakwan Berekdar)

A colloquio con Rachel Beit Arie, direttrice di Zochrot (in ebraico «Noi ricordiamo»), organizzazione israeliana che promuove la consapevolezza della storia e geografia della Nakba, l'esodo di massa palestinese indotto dalla guerra arabo-israeliana del 1948.


«Senza dubbio dopo il 7 ottobre il fatto stesso di poter continuare il nostro lavoro, di insistere nel parlare di Nakba, di “diritto al ritorno” dei palestinesi, è diventato una sfida. Per certi versi però è ancora più urgente. La Nakba infatti – in seguito alla quale è stata creata anche la Striscia di Gaza come area chiusa, riempita di rifugiati – è il punto di partenza del conflitto che stiamo vivendo oggi. Il 7 ottobre è stato tragico, terrificante – personalmente ho perso diversi amici quel giorno – ma è stato la continuazione di un processo iniziato durante la Nakba. Occorre dunque parlare di questa storia, in modo da poter immaginare una possibile soluzione. Una soluzione equa per entrambi i popoli».

A parlare così è Rachel Beit Arie, direttrice di Zochrot (in ebraico «Noi ricordiamo»), organizzazione nonprofit israeliana fondata nel 2002 che lavora per promuovere la consapevolezza della storia e geografia della Nakba (in arabo: la “catastrofe”, vale a dire l’esodo di massa di famiglie palestinesi dai loro villaggi e abitazioni durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948, subito dopo la nascita dello Stato ebraico – ndr). Lo fa principalmente attraverso visite guidate ai siti palestinesi che sono stati svuotati dei loro abitanti e distrutti durante il conflitto del ’48, ma anche grazie a corsi, laboratori, campagne.

Rachel, cresciuta nel Sud del Paese, non lontano da Gaza, ci parla in videochiamata dalla sua casa di Haifa. Zochrot, puntualizza, attualmente non ha una vera e propria sede, perché svolge la maggior parte del proprio lavoro «sul campo». Si finanzia inoltre, perlopiù, grazie a donatori privati (in parte israeliani, in parte stranieri) e a fondi provenienti dal governo tedesco e da alcune fondazioni.

Chiediamo a Rachel come sia cambiato il lavoro dell’organizzazione, e il clima tutt’intorno, negli ultimi mesi.

Uno spazio per il dissenso

Ci spiega che, subito dopo il 7 ottobre 2023, gran parte del lavoro di Zochrot è stato creare spazi – «talvolta davvero anche molto piccoli», dice – nei quali la comunità di persone vicine all’organizzazione e “cresciute” negli anni attorno alle sue attività potessero riunirsi, esprimere il proprio dissenso rispetto alla guerra e all’uso della violenza, continuare a ragionare insieme su una visione politica e di società differente.

«All’interno d’Israele, negli ultimi anni si era già ridotto sensibilmente lo spazio per la libertà di espressione, la discussione, il dissenso. Ma dopo il 7 ottobre questo spazio è venuto meno del tutto: l’unica soluzione prospettata dalla leadership politica è quella dell’uso della forza. Non c’è alcun margine per quanti non supportano la guerra, per coloro che parlano di diritti dei palestinesi, della loro liberazione», continua Rachel.

Così, da fine ottobre, Zochrot ha iniziato a promuovere – all’inizio con cadenza settimanale – momenti d’incontro per la propria rete di attivisti, per la maggior parte composta da ebrei israeliani, ma in parte formata anche da palestinesi cittadini d’Israele. «I partecipanti ci dicevano: “Queste sono le uniche due ore nella mia settimana in cui posso parlare liberamente, in cui mi sento ascoltato e non messo a tacere”. Per noi è stato molto importante aiutare queste persone a mantenere la forza del proprio dissenso, anche se in questo momento non possono manifestare molto il proprio attivismo».

Le visite guidate sui luoghi della Nakba

Da gennaio sono ripresi anche i tour nei villaggi palestinesi distrutti o svuotati della loro popolazione nel 1948. Visite guidate che durano due o tre ore; un giorno intero se coprono aree estese che comprendono più villaggi. Fino ad oggi ne sono state organizzate 35, per gruppi sia locali che internazionali, in tutto Israele e in particolare sui confini del 1948.

«Ogni mese diffondiamo sui canali social e attraverso i nostri contatti un invito aperto a tutti», racconta Rachel. «Il mese scorso, ad esempio, abbiamo tenuto un tour a Lydd (Lod), che si trova nel centro d’Israele, nella zona dell’aeroporto internazionale Ben Gurion. Nei mesi scorsi siamo stati invece a Hosha (nel nord, a est di Haifa), Saffurya (vicino a Nazaret), Beit Sussin, Sheikh Mawannes (Ramat Aviv), Jaffa e Gerusalemme. In più, abbiamo organizzato numerose visite guidate in altri luoghi per gruppi specifici».

Dallo studio della storia all’attivismo

Negli ultimi mesi sono ripresi anche i laboratori. Ne sono stati organizzati due, ciascuno della durata di circa tre mesi. Per entrambi, il programma comprendeva incontri, tour, momenti di approfondimento della storia e pianificazione finale di azioni concrete congiunte.

Il primo laboratorio, iniziato alla fine del 2023 e conclusosi a gennaio 2024, si è tenuto a Gerusalemme ed era incentrato sulla storia della città durante la Nakba. Il secondo, svolto in collaborazione con una rete di organizzazioni che supportano quanti rifiutano il servizio militare. Era dedicato a giovani che hanno da poco terminato le scuole superiori e scelto di rifiutare il servizio militare.

I laboratori, spiega Rachel, «partono dall’imparare la storia del passato – una storia “silenziosa”, che non studiamo a scuola – per passare ad apprendere le basi del concetto di “de-colonizzazione” e infine alcuni metodi di attivismo. Forniscono anche alcuni strumenti pratici: come ottenere una consulenza legale, come pianificare un’azione diretta, e via di seguito. L’obiettivo per tutti è costruire una visione di vita condivisa, equa, pacifica».

I prossimi progetti

Chiediamo infine alla nostra interlocutrice quali siano i progetti per i prossimi mesi. Ci risponde che, oltre a portare avanti i tour e le attività già descritte, l’organizzazione intende, da un lato, focalizzarsi ancora di più sul tema del “diritto al ritorno” per cercare di farlo emergere maggiormente nel dibattito pubblico («Per noi è importante fornire una sorta di “contro-visione”, opposta ad alcune idee assai pericolose che stanno emergendo ora: pulizia etnica totale, cacciare tutti i palestinesi dalla Striscia di Gaza… Anche la visione più liberale, a nostro avviso, non va oltre il ristabilire le barriere e tornare indietro a non so quale tipo di status quo, che ci ha invece portati al 7 ottobre e a tutto ciò che ne è seguito»), dall’altro implementare la propria app iReturn.

L’app consiste in una mappa interattiva virtuale, scaricabile sul proprio cellulare, che consente di localizzare, leggere la storia e visualizzare foto e documenti di tutti i luoghi della Nakba (città, villaggi, campi di rifugiati), in Israele ma anche in Siria, Giordania, Libano, Striscia di Gaza, Cisgiordania.

«Stiamo lavorando per aggiungere nuovi contenuti, immagini e attività, e per favorire ancora di più la navigazione in autonomia e il coinvolgimento dell’utente», conclude Rachel. «A volte veniamo a sapere di discendenti palestinesi o di rifugiati stessi che usano questa app: la notizia ci tocca sempre molto. Allo stesso modo, vi sono israeliani che la utilizzano per scoprire cosa li circonda e non è stato mai loro detto». Finora, iReturn è stata scaricata da circa 11 mila persone.

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