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La penalista Sareta Ashraf: «Nei processi contro l’Isis serve più trasparenza»

Manuela Borraccino
16 luglio 2024
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L'avvocata, esperta dei procedimenti per i crimini contro gli yazidi, commenta la recente condanna a morte, in Iraq, di Asma Mohammed, la prima moglie del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, defunto leader del sedicente Stato islamico.


«Si tratta di un tassello importante nel perseguire in giudizio i crimini dell’Isis, ma restano due questioni aperte: gli atti di questo genere di processi devono poter essere accessibili ed è indispensabile che la legislazione irachena recepisca quanto stabilito dal diritto internazionale sui crimini di guerra». L’avvocata penalista Sareta Ashraf, tra i massimi esperti sui procedimenti contro i crimini commessi dal sedicente Stato islamico (Isis) ai danni della minoranza yazida nel 2014, commenta così a Terrasanta.net la notizia della condanna a morte comminata lo scorso 10 luglio da un tribunale iracheno ad Asma Mohammed (alias Umm Hudaifa), la prima delle quattro mogli del leader dello Stato islamico Abu Bakr al-Baghdadi, per aver preso parte alla riduzione in schiavitù di donne yazide.

La corte non ha diffuso le sue generalità e ha mantenuto il riserbo sul processo, ma fonti citate dai media internazionali hanno identificato la condannata come la prima moglie del leader sciita morto nella provincia siriana di Idlib il 27 ottobre 2019, quando si fece esplodere con due dei suoi due figli, per non cadere vivo in mano agli americani, durante un raid delle forze speciali statunitensi. Già nel 2018 la donna era stata arrestata dalle forze speciali turche in una zona della Siria sotto il loro controllo, secondo quanto aveva reso noto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan dopo la morte di Al-Baghdadi. Solo nel febbraio scorso è stata trasferita in un carcere di massima sicurezza iracheno.

«Il segreto apposto ai processi contro l’Isis – commenta Ashraf – rimane fonte di preoccupazione. È importante che ci sia accesso pubblico e che si abbia notizia di questi processi sia per i sopravvissuti, sia per tutti coloro che cercano giustizia per i crimini perpetrati dall’Isis in altri tribunali, sia per la documentazione storica, tranne nei casi in cui la tutela delle vittime richieda procedimenti a porte chiuse e apposizione del segreto». Per la giurista, curatrice con Carmen Cheung Ka-Man e Joana Cook del saggio a più voci Holding ISIL Accountable. Prosecuting Crimes in Iraq and Syria (Icct, 2024), la sentenza segna un passo avanti nell’affermazione del principio di accountability, ovvero di giustiziabilità e perseguibilità penale per chi si macchia di questi crimini. Segnala però anche un vuoto da colmare il fatto che la donna sia stata condannata in base alla legge irachena per i reati di associazione terroristica e per sequestro di persona. «Questa condanna – rimarca la penalista –, benché importante, è il risultato di accuse formulate in base alle leggi irachene anti-terrorismo. Per facilitare futuri processi contro i crimini perpetrati dall’Isis contro cittadini iracheni, yazidi inclusi, c’è urgente bisogno che in Iraq vengano approvate leggi che recepiscano nella legislazione interna i principi basilari del diritto internazionale sui crimini di guerra, inclusi i reati di genocidio e di crimini contro l’umanità».

La sentenza ha suscitato scalpore, ma non ha fatto luce sul ruolo delle donne dell’Isis. Si tratta di un tema assai controverso perché il loro operato variava a seconda che si trattasse di donne irachene o siriane oppure straniere, a seconda dello status degli uomini ai quali erano legate (per legami di sangue o di nozze) e a seconda, anche, di come sono entrate nell’organizzazione dello Stato islamico (per scelta, per tratta di esseri umani o per matrimoni forzati). «Sebbene il ruolo e le azioni delle donne nello Stato islamico sia notevolmente diverso da un caso all’altro – commenta Ashraf – è indubbio che ci siano state alcune donne che hanno partecipato attivamente o almeno appoggiato l’attuazione di reati. Non dimentichiamo però che l’ideologia dello Stato islamico affonda le radici nel dominio e nell’oppressione delle donne: perciò teniamo in considerazione che anche le donne che hanno commesso dei crimini sono state con ogni probabilità soggiogate e sottoposte a violenza da parte dello Stato islamico».

La condanna a morte di Asma Mohammed giunge dieci anni dopo la sanguinaria presa di possesso, da parte dell’Isis, di circa un terzo dell’Iraq e di quasi la metà della Siria attraverso i massacri di più di 10mila yazidi ed il rapimento di migliaia di donne e ragazze, in quello che le Nazioni Unite hanno definito un vero e proprio genocidio: secondo l’Onu ancora oggi sono 2.700 le yazide sparite nel nulla. Nel corso del processo, l’imputata ha negato le accuse a suo carico e si è detta addolorata per le ragazze sequestrate dall’Isis, nove delle quali sono state condotte come schiave a casa sua. Insieme a lei sono state processate per gli stessi reati la figlia maggiore e un’altra delle mogli del sedicente Califfo, entrambe condannate all’ergastolo.

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