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Il Talmud, il corpus delle Scritture

fra Simone Castaldi
15 luglio 2024
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Cosa intendono gli ebrei quando parlano di Talmud? Quante versioni ne conosciamo? E quale relazione hanno con la Torah, ovvero i primi cinque libri di quello che i cristiani chiamano Antico Testamento?


Quando si parla di Scritture di Israele si usa il termine Torah, che indica principalmente il Pentateuco, ma anche, in senso esteso, tutto il corpus biblico. In realtà sarebbe più corretto parlare di Torot, al plurale; perché il dono della Torah fatto da Dio al popolo d’Israele attraverso Mosè sul monte Sinai ha riguardato per la tradizione ebraica due diversi corpi: uno scritto, la Torah shebiktav («che è nello scritto») e uno orale, la Torah shebealpeh («che è sulla bocca»).

La duplicità della Torah è legata all’idea che da Mosè non sia stata ricevuta solo una tradizione scritta, portatrice degli insegnamenti che troviamo nella Bibbia, ma che questi contenuti siano stati trasmessi anche in una forma tramandata solo oralmente. Questo genera domande complesse: Mosè ha ricevuto qualsiasi cosa oggi venga letta? In effetti una linea di interpretazione dice proprio questo: Mosè ha ricevuto già tutto, anche ciò che verrà scritto in futuro; però a Mosè non è stato comunicato tutto in blocco, ma ha ricevuto i fondamenti della rivelazione e, insieme ad essi, i relativi criteri di interpretazione. E siccome anche questi criteri sono rivelati, se li applico ai fondamenti, rivelazione più rivelazione fa sempre rivelazione.

Mentre la tradizione scritta era per sua natura fissata, per quella orale esisteva una ritrosia, se non addirittura una proibizione ad essere messa per iscritto. La situazione cambiò completamente dopo il 70 d.C. con le sfibrature del tessuto sociale e le prime dispersioni del popolo che seguirono alla distruzione del tempio di Gerusalemme da parte di Roma. In quel momento crebbe il timore che tutto il patrimonio affidato alla sola memoria dei dotti potesse andare perduto. Ciò fece percepire come necessario che anche la Torah orale fosse fissata in una redazione scritta.

Tale lavoro fu compiuto in due direzioni: partendo dal testo biblico, interpretato raccogliendo tutte le sue possibili letture e insegnamenti; e registrando tali insegnamenti senza citarne la fonte. Rabbi Aqibah e il suo allievo Meir (I-II sec. d.C.) sono i primi raccoglitori di questo sterminato materiale, che verrà poi riunito e uniformato da Yehudah ha-Nasi verso la fine del II secolo d.C.

Nasce così un nuovo corpus: la Mishnà (dalla radice ebraica shanà, che rimanda all’idea di «ripetere», «insegnare»). A partire dal IV secolo la Mishnà acquista autorità di testo canonico e diventa oggetto di studio e discussione nelle accademie ebraiche, sia in terra d’Israele sia in Babilonia, che dopo la diaspora era diventato un centro fondamentale per l’ebraismo. Queste discussioni danno luogo a un’ulteriore letteratura: la Ghemarà (dal verbo gamar, che significa «finire», «completare»).

Mishnà e Ghemarà, unite, costituiscono lo «studio» per antonomasia, il Talmud, nome che deriva dalla radice ebraica del verbo «studiare». Il Talmud esiste in due edizioni, relative alle due accademie citate: il Talmud Yerushalmi, o palestinese, che assume la forma definitiva intorno al 380 a Tiberiade; e il Talmud Bavli, o babilonese, portato a termine intorno al 500 nelle accademie della diaspora. Il Bavli, più esteso e accurato nella redazione, è il testo che ha dato al Talmud l’autorità di cui ha goduto sin da subito. È la redazione che seguirà le migrazioni degli ebrei babilonesi in Nord Africa e che, attraverso il Mediterraneo e l’Italia meridionale, arriverà nell’Europa centro-orientale, culla della cultura askenazita.

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