Voci da Gaza sul piano Biden: «Basta che facciate finire la guerra»
La stanchezza dei gazesi e le incognite su chi governerà la Striscia dopo la tregua. L’esperta di sicurezza Audrey Kurth Kronin avverte: per la fine di Hamas non c’è una soluzione militare, ma solo l’implosione interna e il crollo di consensi.
«Anche ammesso e non concesso che Hamas accetti la proposta di Biden e che Israele acconsenta, la guerra sarà stata conclusa ai calci di rigore o con un goal in fuorigioco… Basta che la facciate finire» scriveva nei giorni scorsi su Facebook Rania Al Khodary, una giovane artigiana di Gaza che fino al 7 ottobre promuoveva i suoi prodotti cosmetici sui social media. Rania esprimeva così l’estrema stanchezza e frustrazione dei gazesi dopo otto mesi di guerra ma probabilmente esprimeva il sentire comune delle 690mila donne e ragazze che secondo le Nazioni Unite restano prive dei più elementari kit per l’igiene personale e di acqua potabile tra la fame crescente e la devastazione.
Il 5 giugno il capo della Cia William J. Burns è tornato a Doha per colloqui con il premier qatariota Mohammed bin Abdulrahman Al Thani e il capo dei servizi segreti egiziani, Abbas Kamel, per rilanciare la proposta di un cessate il fuoco permanente in tre fasi presentata il 31 maggio dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che prevede una tregua di sei settimane con lo scambio di ostaggi e di prigionieri palestinesi e l’arrivo di altri aiuti umanitari a Gaza; nella seconda fase Israele dovrebbe ritirarsi completamente dalla Striscia; la terza è la fase della ricostruzione di edifici e infrastrutture che secondo stime delle Nazioni Unite potrebbe costare oltre 40 miliardi di dollari e richiedere almeno cinque anni. Intanto non si fermano i bombardamenti: proprio nella notte tra il 5 e il 6 giugno le forze armate israeliane (Idf) hanno bombardato, uccidendo 32 civili, una scuola dell’Unrwa nel campo profughi di Nuseirat dove secondo l’Idf si erano nascosti dei miliziani di Hamas. Altri bombardamenti sono avvenuti nella zona centrale della Striscia: l’organizzazione Medici senza frontiere ha reso noto che da martedì 4 giugno almeno 70 corpi, quasi tutti di donne e bambini, sono stati portati all’ospedale di Deir al-Balah.
Secondo gli ultimi dati dell’Ufficio palestinese di statistica sono oltre 87mila i feriti e 36mila i morti nella Striscia, dei quali oltre 15mila minori e oltre 10mila donne. In Cisgiordania, invece, son più di 520 i palestinesi uccisi da israeliani (militari o civili). L’ultimo bollettino delle agenzie delle Nazioni Unite parla di 1,7 milioni di profughi e sfollati a Rafah, al confine con l’Egitto, mentre migliaia di famiglie stazionano in baracche semidistrutte a Khan Yunis dove le condizioni sono «indescrivibili» secondo i funzionari dell’Unrwa. Almeno 18.500 donne gravide sono state costrette a lasciare Rafah, mentre altre 10mila restano lì in condizioni disperate e senza l’adeguata assistenza ginecologica e pediatrica. I responsabili del Programma alimentare mondiale parlano di una situazione di salute pubblica «molto oltre i livelli di crisi», con «scene di vita quotidiana che fra suoni e odori diventano ogni giorno sempre più apocalittici».
La giovane Rania non è la sola in questi giorni a chiedersi chi governerà la Striscia durante l’eventuale tregua. Sui social molti si chiedono se sia ancora in piedi l’ipotesi ventilata nei mesi scorsi di riportare nella Striscia l’Autorità nazionale palestinese con delle forze di pace internazionali.
Intanto la professoressa Audrey Kurth Kronin, studiosa di terrorismo e antiterrorismo, in un lungo articolo su Foreign Affairs avverte: dopo otto mesi di carneficina stanno perdendo tutti, a cominciare da Israele con il suo isolamento internazionale, tranne Hamas. Non c’è una soluzione militare per il crollo dell’organizzazione nata 40 anni fa nella Striscia di Gaza e lo Stato ebraico farebbe bene ad adottare una strategia assai più lungimirante: aiutare Hamas a distruggere sé stesso.
Nel corso della sua pluridecennale carriera, la studiosa ha raccolto dati su 457 campagne e organizzazioni terroristiche attive negli ultimi 100 anni nel mondo, arrivando alla conclusione che ci sono sei modi in cui queste sigle cessano di esistere. La maggior parte di loro vengono meno nel sesto modo, il più comune – quello che con ogni probabilità riguarderà anche Hamas – vale a dire il collasso strutturale e la perdita di sostegno popolare. «I sondaggi mostrano che Hamas può guadagnare consensi fuori dalla Striscia per avere attaccato Israele, ma dopo i lutti e la devastazione provocata da otto mesi di guerra nessuno a Gaza, se potesse scegliere, sosterrebbe ancora Hamas. Ecco perché – argomenta Audrey Kurth Kronin – per affrettare il crollo di Hamas, Israele dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per dare ai palestinesi di Gaza la speranza che c’è un’alternativa a Hamas e che un futuro di speranza è possibile: dovrebbe far entrare quantità massicce di aiuti umanitari, partecipare ai piani di ricostruzione, trasmettere in ogni modo la consapevolezza che la vasta maggioranza dei palestinesi di Gaza non ha nulla a che vedere con alcune migliaia di militanti di Hamas. Dopo decenni di conflitto e otto mesi di guerra Israele è ben lontano dallo sconfiggere il gruppo. Ma può ancora vincere, se aiuta Hamas ad autodistruggersi».