La guerra scoppiata il 7 ottobre ha portato all’evacuazione delle popolazioni israeliane che vivono vicino alle zone di conflitto. Mentre stanno rientrando i residenti vicino alla Striscia di Gaza, chi abita al confine con il Libano non riesce ancora a tornare a casa. La testimonianza di una coppia di Kiryat Shmona.
«Abbiamo lasciato la nostra casa a Kiryat Shmona con un cambio di vestiti per due giorni e un giocattolo per ciascuno dei nostri due figli. Questi due giorni durano ormai da otto mesi!». Oren e Ayala sono entrambi cuochi a domicilio di professione (chef privat)i: lui si occupa dei piatti e lei dei dolci. Oren è nato a Kiryat Shmona 40 anni fa e ha perfezionato la sua professione per alcuni anni in Francia, prima di tornare nella sua città natale con la moglie. Originaria di Gerusalemme, Ayala è cresciuta in una comunità che lei stessa descrive come «molto unita, situata nella regione di Israele dove la natura è più bella».
Questa coppia è l’immagine dei quasi 120mila israeliani che hanno dovuto lasciare le loro case dopo il 7 ottobre. Non appena sono scoppiate le ostilità, le autorità hanno ordinato l’evacuazione delle popolazioni più vicine alle zone di combattimento. Circa 60mila residenti nelle vicinanze della Striscia di Gaza e un numero simile di persone vicine al confine con il Libano hanno lasciato le proprie abitazioni.
Divorzi e separazioni
Nella fretta dei primi giorni, coloro che non potevano essere ospitati da parenti sono stati distribuiti negli alberghi di tutto il Paese. Il ministero del Turismo israeliano ha quindi istituito un’indennità giornaliera di soggiorno di 200 shekel per adulto (circa 50 euro) e 100 shekel per bambino (circa 25 euro).
Una famiglia composta da genitori e due figli può così ricevere un aiuto mensile di 18.000 shekel (circa 4.500 euro). Questi aiuti hanno permesso di ridurre progressivamente la percentuale di sfollati alloggiati negli alberghi, una soluzione molto più costosa per l’amministrazione israeliana.
Questa coppia si ritiene fortunata ad aver potuto contare sull’appartamento della sorella di Ayala, allora in viaggio all’estero: «Molte famiglie che erano state indirizzate verso gli alberghi stanno attraversando difficoltà – raccontano –. Sentiamo molte storie di divorzi e separazioni, altre famiglie affrontano problemi di dipendenza. Ma l’impatto più grave è quello sui bambini che non frequentano la scuola a tempo pieno».
Un ritorno messo in questione
Oren è nel complesso molto critico nei confronti della gestione degli sfollati da parte del governo: «L’evacuazione è stata ufficialmente avviata il 20 ottobre, un giorno di shabbat. Alcuni dei miei vicini religiosi non hanno voluto andarsene in quel giorno! In generale si è svolta nel caos più totale e si è protratta per una settimana. I miei genitori si sono trasferiti da mio fratello e ci sono voluti due mesi perché le autorità si ricordassero della loro esistenza e li interrogassero sulle loro necessità!».
Secondo dati forniti dall’esercito israeliano, quasi il 70 per cento degli sfollati nelle zone a sud del Paese risultavano rientrati alle comunità di origine lo scorso aprile. Le crescenti tensioni al confine libanese rendono invece questa prospettiva sempre più lontana per gli sfollati del nord. Hezbollah è entrato in azione dall’8 ottobre, a sostegno dell’offensiva di Hamas.
La milizia sciita libanese attacca il nord di Israele con razzi, droni e missili anticarro. Le forze israeliane rispondono con attacchi effettuati sul territorio libanese utilizzando l’aviazione e l’artiglieria. Fin dall’inizio delle ostilità le autorità israeliane hanno stabilito una zona di evacuazione di 5 chilometri dal confine con il Libano. Mentre prima gli scontri sembravano condotti dalle forze belligeranti in modo da evitare un’escalation incontrollabile, negli ultimi giorni la situazione è improvvisamente peggiorata.
L’eliminazione da parte di Israele, avvenuta l’11 giugno, di Taleb Abdallah, il più alto dirigente di Hezbollah ucciso dopo il 7 ottobre, ha portato a una risposta senza precedenti da parte della milizia libanese. Quasi 250 razzi sono stati lanciati in un solo giorno nel nord di Israele. La grande città di Tiberiade, situata a una trentina di chilometri dal confine, è stata presa di mira per la prima volta dall’inizio del conflitto.
Questo contesto ha portato il governo israeliano il 16 giugno a estendere le misure di sostegno agli sfollati fino al 15 agosto. Lungi dal soddisfarla, questa decisione esaspera Ayala che attende una soluzione definitiva della situazione: «Non ho alcuna fiducia nel nostro governo, abbiamo potuto contare solo sull’esercito e sulla società civile, che ha saputo organizzarsi e sostenere le popolazioni sfollate. Andare in guerra è probabilmente l’unica cosa da fare, se ciò significa poi stipulare un accordo e godersi qualche anno di pace e tranquillità fino alla prossima esplosione».
«Nessuno ci presta attenzione!»
Questa opinione in Israele non è isolata: secondo un sondaggio realizzato a maggio dalla televisione pubblica Kan, il 46 per cento degli intervistati ritiene che un’invasione di terra del Libano sia necessaria, rispetto al 29 per cento contrario e il 25 per cento che non si esprime.
Questo desiderio di una soluzione, a costo di un conflitto aperto, si è recentemente concretizzato nel movimento di protesta «Combattere per il Nord». Sabato 15 giugno alcuni manifestanti hanno bloccato alcune vie di accesso a Gerusalemme e hanno chiesto di respingere qualsiasi accordo con Hezbollah, definito come una «capitolazione». Per Oren queste mobilitazioni sono necessarie: «Nessuno ci presta attenzione! Qualcuno deve reagire perché possiamo vivere in sicurezza a casa nostra. L’anno scolastico sta finendo e non sappiamo nemmeno dove i nostri figli andranno a scuola all’inizio del prossimo anno».
«Le nostre richieste devono convergere con quelle degli sfollati del sud e delle famiglie degli ostaggi per costringere le autorità ad agire», continua. Evacuarci è stato un errore: Hezbollah sa che il territorio a nord è vuoto e può bombardare senza rischiare di costringere il governo a usare tutte le nostre capacità. In fondo questa situazione fa comodo a entrambi».
Le richieste di Oren potrebbero presto concretizzarsi. Hezbollah condiziona la cessazione dei suoi attacchi a un cessate il fuoco definitivo a Gaza che sembra fuori portata. L’esercito israeliano ha annunciato il 18 giugno di aver convalidato un piano per un’offensiva in Libano, minaccia alla quale la milizia sciita ha risposto il 19 attraverso il suo segretario generale Hassan Nasrallah: «Nessun posto in Israele sarà risparmiato dai nostri missili. Se verrà imposta la guerra al Libano, la Resistenza combatterà senza ritegno, senza regole e senza limiti».