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Israele, l’impatto della guerra sull’occupazione femminile

Manuela Borraccino
28 giugno 2024
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«Il conflitto ha provocato un’onda lunga di precarizzazione per le lavoratrici più svantaggiate. Dobbiamo proteggere i loro diritti», dice Tamar Ben Dror, dell’associazione delle Avvocate per la giustizia sociale.


Addette alle pulizie arabe licenziate senza giusta causa da datori di lavoro ebrei; altre donne che non sono più state in grado di raggiungere i luoghi di lavoro e sono state costrette ad accettare un’aspettativa non retribuita per salvaguardare il posto, in attesa che la guerra finisca; altre ancora che sono state obbligate ad accettare l’equivalente della cassa integrazione nella recessione che ha colpito Israele con lo stato di emergenza.

La precarietà o la perdita totale del lavoro che ha colpito migliaia di donne nello Stato ebraico è tra gli effetti dei massacri del 7 ottobre e della guerra che ne è seguita nel rapporto «Voci nascoste» (Hidden Voices), pubblicato di recente dall’associazione di avvocate Itach Ma’akiWomen Lawyers for Social Justice, dopo mesi di assistenza legale fornita a lavoratrici svantaggiate e a donne beduine, tra le beneficiarie dell’operato di questa organizzazione israeliana, fondata nel 2001. «Forniamo gratuitamente assistenza legale – spiega a Terrasanta.net la coordinatrice del rapporto, l’avvocata Tamar Ben Dror – ad un numero che ogni anno oscilla tra le 1.500 e le 2.000 donne, di diversi segmenti della popolazione israeliana, che si trovano in situazione di fragilità sociale. Non abbiamo svolto delle interviste finalizzate a questa ricerca e dunque non disponiamo di numeri, ma abbiamo reso noto il rapporto (solo in ebraico – ndr) sulla base delle numerosissime richieste di aiuto che abbiamo ricevuto dalle donne dall’inizio della guerra».

Secondo la Banca mondiale nel 2023 il tasso di occupazione femminile in Israele era del 47,6 per cento, uno dei più alti dell’area Ocse (in Italia risultava del 42,7 per cento, ma senza tener conto dell’ampia quota di lavoro sommerso). I dati statistici dell’impatto del 7 ottobre sull’occupazione femminile sono ancora pochi. Nei mesi scorsi il centro di ricerche Adva ha lanciato un allarme sugli effetti dei tagli nel bilancio fiscale del 2024 sul Programma per l’impiego dei giovani arabi: la riduzione del 15 per cento dello stanziamento di 30 miliardi di shekels (equivalenti a circa 7,5 miliardi di euro) inizialmente messi a bilancio per il piano quinquennale (2021 – 2026), avverte il Centro, si tradurrà nel mantenimento del divario socioeconomico tra arabi ed ebrei all’interno della popolazione anziché ridurlo come il governo si proponeva di fare. Anche perché le assunzioni di arabi hanno subito un drastico calo dallo scoppio della guerra.

Il piano quinquennale per l’occupazione degli arabi israeliani si propone di aumentare l’integrazione dei giovani arabi fra i 18 e i 35 anni nel mercato del lavoro, con strumenti di inclusione diversi per il gruppo di giovani uomini e donne con il diploma superiore, o un livello di istruzione più basso, e per il gruppo di ragazze in possesso di laurea e post-laurea. Si punta a potenziare le competenze nella lingua ebraica e a fornire opportunità di formazione, orientamento all’impiego nell’hi-tech, incentivi fiscali per le aziende che assumono arabi. Proprio perché i dati preliminari mostrano che il programma sta funzionando, si legge nella nota del centro Adva, è cruciale proseguire sulla strada tracciata.

Secondo i ricercatori Sami Miaari e Arnon Barak c’è stato un aumento del tasso di occupazione delle arabe israeliane in età lavorativa ovvero tra i 25 e i 64 anni, che alla vigilia della guerra era del 44,8 per cento (con un balzo di otto punti rispetto al 36,7 per cento nel 2019), anche grazie al piano quinquennale. Tuttavia questo tasso resta più basso di quello delle ebree israeliane non ortodosse, che si attestava sull’83,2 per cento nel 2022. Le proiezioni elaborate con l’ausilio dei dati del ministero del Lavoro parlano chiaro: l’obiettivo è quello di arrivare almeno al tasso del 46,3 per cento di occupazione femminile araba nel 2026 e al 53 per cento nel 2030 (per gli uomini era del 77,9 nel 2023, con l’obiettivo di contenere il calo entro il 75,8 per cento nel 2026 e di arrivare all’83 per cento nel 2030). Anche la differenza nei salari è amplissima, vista la bassissima presenza di arabi nei settori più retribuiti dell’economia israeliana: nell’industria dell’hi-tech si poteva trovare nel 2019 solo il 2 per cento di occupati arabi, a fronte del 64 per cento di ebrei non ortodossi.

Tornando al rapporto Voci nascoste, «il suo intento – spiega Ben Dror – è di amplificare le voci che di solito non trovano ascolto, come quelle delle donne ai margini del mercato del lavoro e nelle periferie sociali e geografiche di Israele. Al momento dello scoppio della guerra, Israele si trovava già in uno Stato di crisi, ma pensavamo che passata la crisi potesse tornare la crescita. Oggi la raccomandazione che rivolgiamo al governo è di promuovere delle politiche a lungo termine, visto che Israele è quasi costantemente in stato di crisi e non sembra che questa condizione finirà presto. Il rapporto mostra che è necessario creare un meccanismo permanente per assicurare i salari e frenare l’incertezza anche sui periodi di aspettativa non retribuita, o nel ritorno dopo i mesi di maternità (60 giorni dopo il parto in Israele) e di assicurare l’assistenza legale gratuita in caso di violazioni dei diritti delle lavoratrici, soprattutto delle lavoratrici madri».

«La popolazione araba – dice ancora la giurista – è particolarmente esposta ad essere spinta ai margini del mercato del lavoro in tempi di crisi economica, specialmente quando il motivo è la sicurezza. La guerra ha colpito duramente le palestinesi che lavoravano in Israele e alle quali sono stati cancellati i permessi di lavoro. Troppe donne restano prive di status legale. Dobbiamo proteggere le donne contro leggi ingiuste basate sulla nazionalità. È necessario che nei casi in cui non vengono pagati i salari e la lavoratrice non ha i requisiti per il sussidio di disoccupazione, venga stabilito come compensare le donne che non sono potute andare a lavorare per circostanze oggettive causate dalla guerra. È necessario anche prestare la dovuta attenzione alle lavoratrici più vulnerabili, come quelle pagate a ore o impiegate nei settori d’emergenza: troppo spesso non ricevono risposta. Infine dobbiamo rendere accessibili alle donne informazioni sull’assistenza legale e rispetto dei diritti, per superare barriere linguistiche, di accesso ad internet e di alfabetizzazione digitale».

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