L’immagine di una gigantesca tendopoli nel deserto, con lo slogan All eyes on Rafah, è diventata virale in poche ore sui social media, specialmente in quelli più utilizzati dai giovani. Anche se non cambierà le cose sul terreno, il fenomeno merita qualche riflessione.
All eyes on Rafah, «Tutti gli occhi su Rafah», è lo slogan che, accompagnato all’immagine di una gigantesca tendopoli nel deserto, è diventato virale in poche ore. 45 milioni di condivisioni su Instagram e un milione su X al momento in cui scrivo queste righe. È lo slogan che si è visto spesso nelle proteste studentesche che, in giro per il mondo, hanno chiesto uno stop al massacro in corso nella Striscia di Gaza. Mentre l’origine dell’immagine è più misteriosa: non si sa chi l’abbia prodotta, si sa solo che è stata realizzata grazie all’intelligenza artificiale.
Sarà meglio non farsi illusioni. I milioni di condivisioni (comprese quelle dei tanti Vip che non mancano mai) non faranno cambiare idea a Benjamin Netanyahu e non salveranno, purtroppo, le vite dei palestinesi, o quelle dei soldati israeliani che ancora cadono nelle imboscate dei miliziani di Hamas. Proprio come nel 2003 le enormi marce per la pace, che si svolsero in tutte le grandi città del mondo, non scongiurarono l’invasione anglo-americana dell’Iraq con tutte le sue conseguenze.
Di più. Questo All eyes on Rafah non è piaciuto a molti che pure sostengono la causa palestinese. Dicono che l’immagine, palesemente artificiale, è troppo tenera, troppo «comoda» rispetto alla realtà, per esempio, del bambino decapitato dalle bombe israeliane nell’attacco dello scorso 26 maggio contro una tendopoli a Rafah (peraltro in una delle «zone di sicurezza» designate dallo stesso esercito di Israele), in cui sono morte 45 persone, come sempre in gran parte donne e bambini. Dicono che arriva tardi, dopo troppi mesi di combattimenti. E che oscura, con il suo successo, il lavoro dei molti che rischiano la vita per documentare dal vero le sofferenze dei civili palestinesi di Gaza.
C’è del vero in questa critica, ovviamente. Eppure il fenomeno, nel suo piccolo, merita attenzione. Proprio come meritava attenzione il voto massiccio delle giurie popolari per la cantante israeliana e il duo ucraino che, tra molte polemiche, si erano esibiti all’ultimo Eurovision Song Contest. In questi nostri anni, nella distrazione generale, i social sono passati dal ruolo di piccolo divertimento personale, da ombelico portatile, a veri diffusori di informazione, soprattutto presso i giovani. Secondo le più recenti statistiche, l’86 per cento dei giovani tra i 14 e i 19 ricorre ai social per sapere quel che accade nel mondo, rispetto a un 53 per cento che lo fa attraverso la tivù e un 51 per cento che scorre i giornali online.
Ci può piacere o non piacere ma, come diceva Marshall McLuhan, il mezzo è il messaggio. E il successo pure effimero di All eyes on Rafah forse ci dice che le generazioni – la mia, per esempio – che hanno visto le guerre del Medio Oriente e l’incancrenirsi storico del problema tra Israele e i palestinesi e non vogliono rassegnarsi a non parlarne, non hanno perso un pubblico desideroso di sentire (come spesso ci capita di temere) ma forse lo cercano nel posto sbagliato.