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Si può fare a meno dell’Unrwa?

Manuela Borraccino
16 aprile 2024
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Si può fare a meno dell’Unrwa?
Marzo 2024. Distribuzione di pacchi alimentari agli sfollati della Striscia di Gaza in una scuola dell'Unrwa a Rafah. (foto Unrwa/Rajaa Jadili)

Con un numero modesto di dirigenti internazionali e 30mila operatori palestinesi fra insegnanti, medici, infermieri e ingegneri, l’Unrwa costituisce un’anomalia nel sistema delle Nazioni Unite. I politici israeliani ne reclamano la chiusura. Perché non è facile.


Non da oggi, Israele ha ingaggiato una campagna di delegittimazione contro l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che dal 1949 assiste i rifugiati palestinesi. All’epoca della sua creazione gli assistiti erano i 700mila profughi sfollati nella guerra del 1948 verso la Cisgiordania, la Giordania, il Libano e la Siria. Oggi, 75 anni più tardi, sono 5,9 milioni i palestinesi che dipendono per il loro sostentamento da questa agenzia, l’unica del sistema Onu operativa per un popolo specifico. Lo scorso gennaio Israele ha accusato l’agenzia di avere almeno 12 dei suoi dipendenti tra i terroristi dell’attacco del 7 ottobre. Alcune settimane dopo gli israeliani hanno rincarato la dose parlando di «oltre mille membri dell’Unrwa», su 13mila impiegati nella Striscia, coinvolti negli attentati, senza peraltro fornire prove a suffragio di questi numeri.

L’Unrwa ha aperto un’inchiesta interna e ha licenziato vari dipendenti ammettendo che l’agenzia non sempre riusciva a distinguere fra operatori e affiliati di Hamas. Questo però non è bastato per impedire a una ventina di paesi (fra i quali i tre maggiori donatori ovvero Stati Uniti, Germania e Unione europea) di sospendere i finanziamenti in attesa degli esiti dell’indagine. Lo scorso 23 marzo il Congresso americano ha varato il divieto di finanziamenti all’agenzia per un anno, dopo che nel 2022 gli Stati Uniti avevano fornito all’Unrwa un quarto del suo budget: 343 milioni di dollari sui 1.200 milioni all’anno. È vero che gli Stati Uniti hanno già versato 121 milioni di dollari per l’anno fiscale in corso, ma il divieto rischia di privare l’agenzia di fondi indispensabili per il mantenimento delle sue prestazioni e di fatto rimanda la decisione a chi si insedierà alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre. Vi è da dire che, considerando la disastrosa situazione sul terreno, diversi contributori dell’Unrwa – come Giappone, Canada, Australia, Spagna, Francia, Svezia, Unione europea – sono tornati sui loro passi nelle ultime settimane, annunciando la volontà di riprendere i versamenti.

Da ente d’emergenza a para-Stato

Con un numero modesto di dirigenti internazionali al volante e un motore costituito da circa 30mila palestinesi fra insegnanti, medici, infermieri e ingegneri, di certo l’Unrwa costituisce un’anomalia all’interno del sistema delle Nazioni Unite: lo spiega su Foreign Affairs Jonathan Lincoln, docente di cultura ebraica all’Università di Georgetown e dal 2017 al 2021 funzionario Onu responsabile del coordinamento degli aiuti in Cisgiordania e a Gaza. Non è paragonabile neppure all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur/Unhcr), che per assistere le varie popolazioni rifugiate nel mondo dispone di circa 19mila operatori in 137 Paesi a sostegno di quasi 90 milioni di profughi. «Sebbene sia parte delle Nazioni Unite – rimarca Lincoln – l’Unrwa costituisce un’entità palestinese. Essa opera in gran parte al di fuori della cornice dell’Onu per l’assistenza umanitaria e per lo sviluppo a livello globale, ma la sua stessa esistenza ha un’enorme rilevanza anche simbolica all’interno della narrazione politica palestinese. Questo soprattutto perché la fornitura di servizi dell’Unrwa rappresenta per i palestinesi un riconoscimento internazionalmente garantito dei loro diritti, compreso il diritto al ritorno o il diritto al risarcimento per le proprietà che hanno dovuto lasciare quando vennero cacciati nel 1948 e che si trovano oggi in Israele. In un luogo come Gaza, dove il 70 per cento dei 2,2 milioni di abitanti ha lo status di rifugiato, l’Unrwa appare e agisce più come uno Stato che come un’agenzia delle Nazioni Unite».

Chiudere l’Unrwa?

Israele ha da sempre un rapporto controverso con l’Unrwa. Benché nel corso degli anni molti esponenti politici israeliani ne abbiano reclamato la chiusura, di fatto questa agenzia ha fornito ai palestinesi quei servizi umanitari che altrimenti avrebbe dovuto fornire lo Stato ebraico, in quanto potenza occupante in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dal 1967. Anche per questo, almeno fino al 7 ottobre, l’agenzia ha avuto con l’esercito israeliano rapporti assai migliori di quelli che ha con la classe politica. Che Hamas e altri gruppi estremisti si siano mischiati ai ranghi dell’Unrwa e usato le sue strutture come copertura non è certo una rivelazione: è un’accusa con cui l’agenzia lotta da anni, insieme alla preoccupazione per la sicurezza del suo staff. Così come non è certo una novità la constatazione sulla necessità di riformare l’Unrwa. Ma da qui a dire che vada chiusa è tutto un altro paio di maniche.

La chiusura dell’Unrwa, senza aver costruito – nell’arco di qualche anno – alcuna alternativa, provocherebbe un’ulteriore catastrofe in tutta la regione. Nella sola Striscia di Gaza, significherebbe sostituire medici e amministrativi di almeno 22 poliambulatori e il corpo docente di 183 scuole frequentate da 286mila alunni. Anche in Giordania, Libano e Siria significherebbe mettere nei guai 500mila studenti e 140 cliniche che dipendono direttamente dall’Unrwa. Una delle aspre verità che si va facendo strada tra le macerie di Gaza è che solo un accordo di pace che ponga fine al conflitto israelo-palestinese può evitare ai politici americani, europei e arabi di affrontare l’ulteriore, costoso grattacapo di come riformare l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.

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