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Guerra a Gaza, la tregua non sboccia

Manuela Borraccino
7 marzo 2024
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Guerra a Gaza, la tregua non sboccia
... E intanto la devastazione continua. Palestinesi tra le macerie di edifici bombardati a Rafah il 4 marzo 2024. (foto Abed Rahim Khatib/Flash90)

Crescono le pressioni degli attori internazionali per un cessate il fuoco, ma Israele e Hamas non cedono e cresce la fame a Gaza. Mentre Benny Gantz rientra dai colloqui a Washington e Londra, l’Autorità palestinese cerca di uscire dall’angolo.


È di nuovo stallo sui negoziati per un cessate il fuoco, che non sarà raggiunto entro domenica 10 marzo – avvio del mese di Ramadan – come auspicato dall’amministrazione statunitense. Dopo 150 giorni di guerra a Gaza, non si intravvedono spiragli per l’accesso al cibo e alle cure sanitarie dei palestinesi della Striscia nonostante le pressioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna su Israele, perché aumentino le forniture di aiuti alimentari, e di Egitto e Qatar su Hamas, per il rilascio degli ostaggi. E mentre il ministro del governo israeliano di larghe intese Benny Gantz vedrà oggi a Londra il premier britannico Rishi Sunak dopo il tour di colloqui a Washington, il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas è rientrato a Ramallah dopo la visita in Turchia, dove ha discusso del dopoguerra a Gaza con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

Hamas vorrebbe una tregua permanente

Fonti diplomatiche hanno spiegato al quotidiano The New York Times che il nodo che allontana l’accordo per un cessate il fuoco fra Israele e Hamas continua ad essere la diversa concezione della tregua durante la quale dovrebbe avvenire lo scambio fra una quarantina di ostaggi rapiti il 7 ottobre scorso e un numero consistente di detenuti palestinesi. Hamas vorrebbe che Israele accettasse fin d’ora una tregua permanente durante o subito dopo tre diverse fasi nel rilascio degli ostaggi. Lo Stato ebraico, con il sostegno degli Stati Uniti, punta invece ad un accordo solo sui termini della prima fase, che vedrebbe il rilascio di 40 ostaggi mentre altri 100 rimarrebbero in mano a Hamas. Oltre a cinque soldatesse in cambio di 15 prigionieri condannati per terrorismo, verrebbero liberate altre sette israeliane e 28 tra anziani e feriti: per questi 35 ostaggi verrebbero scarcerati 350 detenuti. La liberazione di soldati israeliani sarà invece oggetto di un negoziato a parte.

Fonti israeliane sostengono che si pensava di aver raggiunto un accordo, quando Hamas è tornato a mettere sul tappeto altre richieste, che hanno provocato un nuovo stallo: per questo la delegazione dello Stato ebraico, dopo i colloqui avvenuti in Qatar, non si è recata al prosieguo dei negoziati al Cairo. Oltre a puntare alla tregua permanente, Hamas insiste anche sul ritiro delle truppe israeliane dal nord della Striscia dopo il rilascio del terzo gruppo di ostaggi e sull’aumento di aiuti alimentari, con la garanzia che la metà sarebbero destinati al nord di Gaza, dove le migliaia di persone rimaste da settimane non sono state più raggiunte da rifornimenti di cibo.

Secondo diverse fonti Hamas ha alzato la posta anche nella convinzione dell’ulteriore indebolimento della posizione internazionale di Israele dopo la strage avvenuta una settimana fa a Gaza, quando oltre 100 persone sono morte per la ressa e per i proiettili sparati dall’esercito israeliano per disperdere la folla durante l’assalto a un convoglio di aiuti umanitari. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale statunitense John Kirby ha dichiarato che, nonostante la delusione dei mediatori americani per il mancato raggiungimento dell’accordo, tra i negoziatori c’è fiducia che Hamas alla fine accetterà quanto è stato proposto e discusso a più riprese, anche se dovessero ancora volerci giorni per mettere a punto i dettagli.

Pressing per gli aiuti umanitari

Durante la visita del ministro israeliano Benny Gantz a Washington e a Londra – «non autorizzata», ha detto il premier Benjamin Netanyahu – la vicepresidente statunitense Kamala Harris e al ministro degli Esteri britannico David Cameron hanno ribadito che Israele come potenza occupante a Gaza ha il dovere di fornire aiuti umanitari, come previsto dal diritto internazionale. Nello scavalcare il premier in carica e invitare l’uomo che secondo i sondaggi avrebbe più probabilità di essere eletto in elezioni anticipate (secondo un recente sondaggio della tivù israeliana Channel 13 al partito centrista di Gantz, Unità nazionale, andrebbero 39 seggi e solo 17 al Likud), Stati Uniti e Regno Unito hanno anche espresso la propria frustrazione e insofferenza verso Netanyahu, leader del Likud, sia per come sta conducendo i palestinesi di Gaza alla morte per fame sia per la sua opposizione ai piani della comunità internazionale per il dopoguerra a Gaza e l’avvio di una soluzione negoziata per la questione palestinese.

L’ex premier britannico Cameron aveva già dichiarato un mese fa che la Gran Bretagna era pronta a riconoscere uno Stato palestinese provvisorio anche senza aspettare l’avvio di negoziati ufficiali tra israeliani e palestinesi per una soluzione a due Stati. Dichiarazioni che il ministro Gantz avrebbe chiesto di evitare perché «non fanno che aiutare Netanyahu», come si è visto dal recente voto alla Knesset contro qualsiasi riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese.

Verso timide riforme dell’Olp

Intanto si è messo in moto il processo che potrebbe portare al superamento del governo di Hamas a Gaza, uno due maggiori ostacoli ai piani della comunità internazionale per l’avvio di una pacificazione regionale. Un primo passo verso la riforma dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, per includere nell’Olp tutte le componenti della società palestinese, comprese Hamas e il Jihad islamico, è avvenuto il 26 febbraio con le dimissioni del premier palestinese Mohammed Shtayyeh per l’avvio di un governo di transizione. Il favorito per guidarlo, e progettare con i partner internazionali la ricostruzione di Gaza, potrebbe essere l’economista Mohammad Mustafa, la cui nomina sarebbe accolta sia dagli americani che dagli israeliani.

Tre ostacoli per il futuro premier palestinese

Il primo ostacolo da superare sarà la bancarotta dell’Autorità palestinese, che dipende per il 64 per cento del proprio bilancio dai diritti doganali che Israele riscuote per suo conto. Dopo il 7 ottobre lo Stato ebraico ha bloccato il trasferimento degli introiti fiscali e l’Autorità palestinese, che già arrancava ed era in ritardo coi pagamenti, non ha più potuto versare gli stipendi ai dipendenti pubblici, aumentando così la sofferenza economica in Cisgiordania dove già sono andati in fumo da ottobre oltre 200mila posti di lavoro. La Norvegia si è offerta di custodire i 257 milioni di dollari congelati da Israele finché non verrà autorizzato il trasferimento ai palestinesi, ma il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha bloccato il versamento, contro il parere della maggior parte dei membri del governo.

L’altro ostacolo saranno le riforme dell’Autorità palestinese con la sostituzione del presidente Mahmoud Abbas e l’allargamento della base democratica del consenso, visto che in questi 19 anni l’anziano leader ha osteggiato qualsiasi forma di dissenso e di partecipazione della società civile. Gli unici con cui ha condiviso il potere sono stati Majid Faraj, a capo dell’intelligence, e il suo delfino Hussein al-Sheikh. Il terzo ostacolo, il più grande, che il successore di Shtayeeh dovrà affrontare è Israele: al di là di risorse finanziarie e capitale politico, solo mettendo fine all’occupazione dei Territori l’Autorità palestinese può sperare di recuperare credibilità fra la sua gente. Una mission impossible per chiunque senza un fermo impegno dei leader occidentali e arabi.

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