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Guerra a Gaza, imbrigliare Israele si può?

Fulvio Scaglione
14 marzo 2024
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Se tutti ora – Stati Uniti in testa – chiedono a gran voce la soluzione dei «due Stati per due popoli» in Terra Santa, perché nulla si fa di concreto per spingere Israele in quella direzione? E se la guerra in corso nella Striscia di Gaza ha assunto dimensioni sproporzionate, perché non se ne traggono le conseguenze?


Continuando a seguire la crisi di Gaza e di Israele (perché è piuttosto chiaro che c’è anche una crisi interna allo Stato ebraico), mi imbatto in articoli che enunciano un semplice postulato: gli Stati Uniti e l’Unione europea da lungo tempo hanno deciso sanzioni contro Hamas, perché non fanno altrettanto contro Israele, visto che giudicano negativamente le sue azioni degli ultimi mesi?

Qui ci si muove su un terreno molto scivoloso. Il paragone nudo e crudo è infatti insostenibile, per molte ragioni. Per dirne solo una, Israele è uno Stato internazionalmente riconosciuto, Hamas è il movimento che ha preso il potere a Gaza con un’insurrezione armata contro l’Autorità nazionale palestinese, rappresentante ufficiale del popolo palestinese. E il suo governo di Gaza non è internazionalmente riconosciuto. L’ala militare di Hamas è sulla lista sanzionatoria della Ue dal 2001, quella politica dal 2003 e nel gennaio scorso le sanzioni europee sono state ampliate e indirizzate specificatamente anche contro individui come Yahya Sinwar, il leader politico del movimento nella Striscia. Per gli Usa, invece, Hamas è sulla lista dei sanzionati fin dal 2006, cioè dalla presa di potere a Gaza, in tre diversi programmi controllati dal ministero del Tesoro. Per finire, oltre alla Ue, anche Paesi come Francia, Regno Unito e Australia hanno incrementato, nel gennaio scorso, in seguito al feroce attacco terroristico lanciato da Hamas il 7 ottobre 2023, pacchetti di sanzioni già esistenti.

Una domanda, però, resta. Mettiamola così: se tutti ora, gli Usa in testa, chiedono a gran voce la soluzione dei «due Stati per due popoli», perché da decenni nulla si fa di concreto per spingere Israele ad andare verso quello sbocco? Perché si è permesso che, nel tempo, Israele la rendesse di fatto impossibile, trasferendo 700mila persone (incluse le 200mila a Gerusalemme Est), cioè circa il 10 per cento della popolazione ebraica del Paese, negli insediamenti sui territori palestinesi che per la legislazione internazionale sono illegali? E se l’attuale spedizione militare a Gaza è considerata una «reazione sproporzionata» (questa la dizione ufficiale dei documenti Ue), perché non si fa nulla di concreto, non diciamo per fermarla ma almeno per renderla meno sproporzionata? Ha senso regalare ogni anno 4 miliardi di dollari di armi a Israele, come fanno gli Usa, e poi timidamente auspicare che il primo ministro Benjamin Netanyahu (o chi per lui) non le usi? Non avrebbe più senso dire: visto che tu, Israele, vuoi fare tutto questo che per noi è inumano e dannoso (anche per la tua sicurezza), noi le armi non te le diamo più, almeno fino a quando non diventerai più ragionevole?

Si capisce che l’alta politica segue altri percorsi. Ma non pare che l’alta politica, in Medio Oriente, dall’Iraq alla Libia, dalla Siria a Gaza, abbia finora ottenuto risultati eclatanti. Anzi, ovunque è riuscita a peggiorare la situazione. E a Gaza, non dimentichiamolo neppure per un istante, tra morti, feriti e dispersi abbiamo già sfondato il muro delle 100mila persone. Su 2 milioni e 200mila abitanti. Siamo vicini ormai al 5 per cento del totale. Come se in Italia (59 milioni di abitanti), in cinque mesi, venissero colpiti o uccisi circa 3 milioni di persone. Pensiamoci.

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