Sulle vicende in corso a Gaza, le nazioni del Sud del mondo che hanno sperimentato il colonialismo ravvisano elementi comuni con pagine dolorose del loro passato. E quindi li rigettano.
Joseph Andoni Massad, giordano di origini palestinesi, è docente di Politica araba moderna nel Dipartimento di studi sul Medio Oriente della prestigiosa Columbia University di New York. Ma soprattutto è un intellettuale controverso, autore di libri (come La persistenza della questione palestinese, del 2006) che hanno fatto discutere e di prese di posizione che hanno diviso il mondo politico e intellettuale (lui considera il leader palestinese Mahmoud Abbas un «collaborazionista di Israele») e attirato su Massad accuse di antisemitismo che sono poi sempre state smentite da tutte le indagini, sia interne sia esterne alla Columbia.
Uno dei suoi ultimi articoli, dedicato a quello che lui chiama «il genocidio israeliano a Gaza», è come sempre molto radicale e divisivo, però sottolinea anche un aspetto di questa crisi che non va sottovalutato. Ovvero, il divario che si è aperto tra il cosiddetto «Sud globale» e un Nord del mondo che in generale si è schierato senza se e senza ma con Israele e che solo ora sta cominciando a elaborare i primi dubbi, come dimostra anche la mozione bipartisan approvata dal Parlamento italiano, il 13 febbraio, per un cessate il fuoco a Gaza.
La tesi di Massad è che i Paesi del Sud del mondo, che hanno subito in passato il colonialismo dei bianchi del Nord, rivivano nel dramma di Gaza le vicende vissute in prima persona e non possano quindi accettarle. Per lui, insomma, ciò che succede a Gaza e in generale tra Israele e palestinesi è l’aggressione dei «colonialisti» (gli israeliani) contro i «nativi» (i palestinesi). Più in generale, un massacro ordito da «suprematisti bianchi» contro un «popolo non bianco».
Come si diceva, è una tesi radicale. Resta il fatto che il Sudafrica, in maniera molto evidente, accusando Israele di genocidio e portando la questione davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, si è fatto portavoce dell’inquietudine e del dissenso di quello che una volta chiamavamo Terzo Mondo nei confronti del Primo Mondo. L’esempio più tipico di questo processo il recente scontro verbale tra la Namibia e la Germania. Quest’ultima il 12 gennaio scorso ha annunciato l’intento di presentarsi alla Corte di Giustizia per intervenire, come parte terza non in causa, a sostegno di Israele, che non può essere considerato responsabile di genocidio. Pochi giorni prima che un tumore lo stroncasse (il 4 febbraio scorso), ha avuto gioco facile il presidente della Namibiia Hage Geingob nell’accusare il governo tedesco di «incapacità di trarre le dovute lezioni dalla storia orribile del suo Paese», ricordando il massacro (anche con campi di concentramento) delle tribù Herero e Nama operato dai colonizzatori tedeschi in Namibia nei primissimi anni del Novecento.
Fondata o no che sia la tesi di Massad, resta il fatto che, su Gaza ma non solo su Gaza, assistiamo a uno smottamento dei vecchi equilibri e a un allentamento progressivo dell’influenza culturale e politica che la nostra parte di mondo – in sintesi Europa e America – ha esercitato sul mondo intero nell’ultimo secolo e mezzo. Da questo punto di vista, l’attuale guerra tra Israele e palestinesi, di certo il momento più drammatico nella loro storia insieme con la guerra del 1947-1948, la nascita dello Stato ebraico e la nakba palestinese, può diventare uno snodo decisivo verso una comunità internazionale di cui, al momento, sappiamo solo che sarà diversa da quella in cui siamo cresciuti. Quale sarà, su quali equilibri si reggerà e dove ci porterà lo scopriremo solo vivendo.