(g.s.) – La scorsa settimana, dal 19 al 22 febbraio, il patriarca latino di Gerusalemme, cardinal Pierbattista Pizzaballa, ha trascorso alcuni giorni nella sua terra natale, la Lombardia. Nelle città di Lodi e di Milano lo attendevano quattro incontri pubblici. Nel tardo pomeriggio del 19 febbraio, presso la basilica di Santa Maria delle Grazie, nel capoluogo lombardo, ha partecipato alla presentazione di un libro delle edizioni Attendiamoci nel quale anche il patriarca è una delle voci intervistate, insieme a tante altre personalità italiane.
La sera del 20 febbraio, ospite del vescovo Maurizio Malvestiti, il patriarca ha preso parte al Colloquio di San Bassiano nel duomo di Lodi, un momento di riflessione su temi etici e civici che anno dopo anno la diocesi propone ad autorità, amministratori pubblici ed esponenti del mondo sociale a ridosso della festa del patrono san Bassiano (che ricorre il 19 gennaio). In questa circostanza il colloquio è stato aperto a tutti i lodigiani, e in particolare ai giovani e a chi in passato è stato pellegrino in Terra Santa. La cattedrale era gremita.
Almeno 400 persone – forse più, tra laici, suore e preti – hanno seguito attente il discorrere del cardinal Pizzaballa nel pomeriggio di mercoledì 21 presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale (in via Cavalieri del Santo Sepolcro, a Milano). Altrettanto numeroso l’uditorio convenuto in serata, in un’altra sede, ad ascoltare il dialogo tra il patriarca e l’arcivescovo della diocesi ambrosiana, mons. Mario Delpini. Evento promosso dai Circoli culturali Giovanni Paolo II (area Regnum Christi – Legionari di Cristo) e dall’Unione cristiana imprenditori dirigenti (Ucid).
In tutti questi appuntamenti il cardinal Pizzaballa ha potuto condividere la sua lettura del contesto attuale in Terra Santa. Dopo aver descritto la situazione drammatica nella Striscia di Gaza ma anche in Cisgiordania, dove ci sono state centinaia di morti tra i palestinesi e dilaga la disoccupazione, ha offerto alcune riflessioni di fondo, di cui rilanciamo qui solo qualche passaggio:
• «Quanto è accaduto il 7 ottobre 2023 è certamente uno spartiacque, una novità assoluta sotto molti punti di vista».
«Per la popolazione israeliana ebraica è stato uno choc incredibile, non ancora superato. Per loro Israele è casa, ma i fatti del 7 ottobre nel sud di Israele li fa sentire non più al sicuro. Per Israele questa guerra è la risposta a una minaccia avvertita come esistenziale. (…) Sul versante palestinese la prospettiva è totalmente diversa. Per i palestinesi il 7 ottobre non è una novità, ma un episodio di un conflitto vecchio di decenni. Quel giorno c’è stata una diversa intensità degli eventi, ma non una novità assoluta. Per i palestinesi è grande il trauma per quanto sta accadendo a Gaza: tanta violenza nelle operazioni belliche non c’era mai stata nelle guerre precedenti del 1948 e del 1967. Gli sfollati e i profughi che vediamo oggi a Gaza riportano alla Nakba di quegli anni (…) Ciascuno dei due popoli si sente vittima, la sola vittima, mentre l’altro popolo è visto come causa del proprio dolore. La sfiducia tra le parti è profonda» (il cardinale Pierbattista Pizzaballa nel Duomo di Lodi).
• «Anche il dialogo interreligioso è in crisi in Terra Santa. Non riusciamo più a incontrarci. Ciascuno è chiuso nella propria comunità e parla ai suoi. Non ci sono più incontri pubblici, gli uni con gli altri. Se ci si incontra, lo si fa in privato. L’essenziale è che non ci sia una foto, altrimenti la tua gente ti impallina. Esemplifico: poco prima di Natale i capi delle Chiese hanno incontrato il presidente di Israele Isaac Herzog. È stato uno di quegli incontri protocollari che si fanno tutti gli anni [per lo scambio di auguri]. Stavolta era stato organizzato in modo diverso, come uno scambio di vedute sulla situazione attuale. Ebbene, è bastata la pubblicazione della foto ufficiale dei capi religiosi cristiani accanto al presidente di Israele a scatenare una furiosa reazione nel mondo arabo palestinese, anche cristiano, che ha dichiarato: “Noi non accoglieremo i patriarchi a Betlemme a Natale perché hanno incontrato il nemico”. Naturalmente siamo entrati ugualmente a Betlemme, sia pure con difficoltà. Nel mio caso, i palestinesi mi hanno messo al collo una kefiah e ciò è stato visto in modo decisamente negativo da parte israeliano-ebraica; come una sorta di tradimento delle relazioni con loro. Tutto, insomma, è vissuto in modo molto polarizzato. La tensione è profonda ed è molto difficile capire come uscire da questa situazione» (nel Duomo di Lodi).
• «Ci sono ferite molto laceranti che richiederanno tempo per essere curate. È necessario intanto cercare di arginare la deriva, soprattutto nel linguaggio. E di limitare l’odio profondo che viene seminato tra le popolazioni israeliana e palestinese. Bisogna poi creare occasioni per ricostruire la fiducia. Bisogna porre gesti nel territorio. Come Chiesa non potremo cambiare le sorti della regione, anche se qualche parola possiamo dirla, più in privato che in pubblico. Possiamo però costruire occasioni di incontro e relazione. (…) Non bisogna arrendersi alle narrative esclusive, dove uno è contro l’altro. Occorre creare occasioni di vicinanza. C’è una cosa che in questi mesi ci viene detta dagli uni e dagli altri, anche se in maniera diversa. “Sappiamo che la situazione e complessa e che state facendo il possibile. Non ci aspettiamo che possiate risolverla. Quello di cui abbiamo bisogno è la vostra empatia. Vogliamo sentirvi vicini, nel nostro disorientamento e solitudine”, dicono gli israeliani. I palestinesi dicono qualcosa di analogo, con un linguaggio diverso: “Ci ricorderemo di quelli che in questo momento ci sono stati vicini e di quelli che non ci sono stati vicini. Quando ricostruiremo il nostro Paese, perché lo faremo, vorremo accanto solo i primi”. Ciascuno vorrebbe un rapporto esclusivo, ma l’amore non è esclusivo. Non pone limiti e confini. Se voglio bene a te, non vuol dire che non voglia bene all’altro. Giorno dopo giorno dobbiamo essere lì, essere vicini, anche con tutti i nostri errori e insufficienze. Il presidente palestinese Abu Mazen disse tempo fa: “Ci sono tante persone che cercano la pace qui in Terra Santa. Dobbiamo cercarle e tenerle vicine, perché verrà il momento in cui avremo bisogno di loro”. Ne sono convinto anche io. Un giorno avremo bisogno di loro» (nel Duomo di Lodi).
• «Il conflitto ha anche chiare connotazioni religiose, non solo politiche, e quindi i religiosi hanno le loro responsabilità in tutto questo. Non amo parlare di religione perché è un concetto astratto. Parlo dei religiosi, dei credenti. Quando i responsabili religiosi si fanno canali di discorsi d’odio ne sono anche vittime; creano odio, ma vengono anche meno alla loro responsabilità; seguono la corrente invece di orientarla. Ci sono poi anche quelli che per paura di prendere posizione, restano spettatori».
«Dopo il 7 ottobre i capi delle Chiese di Terra Santa hanno diffuso delle dichiarazioni comuni che sono state criticate da tutti, sia dagli israeliani sia dei palestinesi, perché in quelle dichiarazioni si è usato una sorta di “manuale Cencelli”, di bilancino di espressioni in cui si dice tutto senza entrare nel merito. Sono state contestate proprio perché quelle espressioni non hanno saputo raggiungere i cuori di nessuno, ma rispondevano ad esigenze di carattere politico. A volte noi capi delle Chiese siamo in difficoltà: sottoscrivi una dichiarazione comune, che rischia di essere un po’ insipida perché deve mettere insieme tutte le diverse sensibilità, oppure ti chiami fuori e fai una dichiarazione libera come la vuoi tu, ma separandoti dalle altre Chiese? La scelta non è mai semplice e ha sempre un costo».
«A volte si è anche complici. Sono pochi i leader religiosi cristiani, ebrei e musulmani in Terra Santa che si esprimono con chiarezza su quanto sta avvenendo. Taluni hanno incoraggiato o giustificato certe forme di violenza. È un tema doloroso. A volte mi chiedo se, quando parliamo, temiamo più Dio o quello che gli altri potrebbero pensare di noi» (in Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale – Milano).
• «In Terra Santa gli slogan non funzionano. Devi mettere in conto l’incomprensione, la solitudine, il vivere dentro quella complessità accettando il fatto che puoi fare errori e sbagliare. L’importante è non star fermo per paura di sbagliare. Devi metterti in gioco. Se sei onesto, se non c’è malizia nel tuo atteggiamento, ti viene riconosciuto» (in Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale – Milano).
• «Le religioni non possono dialogare. I religiosi, le persone, i credenti, le comunità credenti invece sì. Possono e devono dialogare. Le esperienze di fede si devono incontrare. I leader religiosi hanno una grandissima responsabilità; papa Francesco insiste molto a riguardo. Una cosa per me è diventata chiara, soprattutto in questi ultimi mesi: non sono più disposto a fare incontri e tavole interreligiose se non con “colleghi” ebrei e musulmani che abbiano un contatto con il territorio. Sono vescovo a Gerusalemme e mi interessa dialogare con il rabbino di Gerusalemme e non con l’accademico, con il professore Pinco Pallino. Questo perché io ho una responsabilità sulla mia comunità, come lui l’ha sulla sua; il dialogo tra noi può diventare anche dialogo tra le rispettive comunità e deve partire anzitutto dalle esperienze comuni, dalle cose semplici della vita di ogni giorno e poi, poco alla volta crescere e creare occasioni di fiducia reciproca. In questi mesi in cui i rapporti tra cristiani, ebrei e musulmani sono al minimo possibile, devo dire che ci siamo incontrati in privato – senza fotografie! –, e per iniziativa loro, soprattutto con rabbini e con imam del territorio, che sentono il bisogno di confrontarsi perché avvertono che non si può andare avanti così. Credo che questo tsunami, questa situazione orribile in cui ci troviamo possa essere anche un’opportunità per ripensare il dialogo, per fare un salto ulteriore. Non possiamo tornare a dialogare con il mondo ebraico e il mondo islamico come se i fatti del 7 ottobre non siano mai accaduti. Tra noi ci sono state e ci sono molte incomprensioni sulla lettura degli eventi ed è da lì che dobbiamo partire. Di questo dobbiamo parlare, senza pretendere di trovarci d’accordo ma almeno imparare ad amarci e rispettarci ciascuno nella propria differenza. Sono convinto che ciò non sia solo possibile, ma anche necessario e prioritario» (in Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale – Milano).