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Due o tre cose che forse non sapete su Rafah

Elisa Pinna
22 febbraio 2024
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La cittadina di Rafah, nell'estremo sud della Striscia di Gaza, è ora il fronte avanzato dell'offensiva israeliana contro le forze di Hamas e delle altre milizie palestinesi che le fiancheggiano. Che storia ha alle spalle questo centro urbano oggi sotto tiro?


Rafah, la cittadina più a sud della Striscia di Gaza, minacciata ora da un’invasione di terra israeliana giudicata catastrofica da gran parte della comunità internazionale, ha una storia millenaria alle spalle. Nell’ultimo secolo, tra l’altro, un confine imposto da forze esterne ha diviso ad intermittenza l’abitato e la sua gente, creando due Rafah, una in Egitto e una in Palestina.

Un primo riferimento a Rafah, un’oasi nel deserto ai limiti orientali del Sinai, si trova per la prima volta in un’iscrizione su una stele egizia risalente al XIII secolo avanti Cristo. Gli egizi chiamavano Robihwa la località, che è diventata Raphia per i greci e i romani in età ellenistica, e infine Rafah per gli arabi. Il suo nome è entrato nella storia in quanto teatro di un’importante battaglia: nel 217 a.C., nella piana di Raphia si affrontarono, per il dominio di un’area che arrivava all’odierna Siria, l’esercito di oltre 70 mila uomini del re egizio Tolomeo IV e l’esercito dell’impero seleucide di Antioco III, di 60 mila fanti e cavalieri. Sul campo combatterono anche 200 elefanti, utilizzati da entrambi gli schieramenti. Gli elefanti asiatici ebbero la meglio su quelli africani, ma il sovrano egizio, con forze più ingenti, riuscì a sconfiggere l’avversario. Il successivo trattato di pace non fu particolarmente punitivo e, pochi decenni dopo, a simboleggiare una qualche riconciliazione, a Rafiah si celebrarono le nozze dei figli dei due contendenti: Cleopatra I, figlia di Antioco III (e antenata della famosa Cleopatra di Antonio e Cesare) e Tolomeo V, figlio di Tolomeo IV.

Dopo un breve periodo di dominazione da parte di piccoli regni israelitici di età ellenistica-romana, Rafiah fu inglobata per sette secoli nei territori dell’Impero romano, fino a quando nel 635 d.C. non arrivarono le armate del califfo Omar, uno dei primi successori di Maometto, che la conquistarono e islamizzarono.

Rafah – che a quel punto aveva preso l’attuale nome – è passata dalle mani degli Omayyadi a quelle degli Abbasidi e, di dinastia in dinastia, fino ai turchi-ottomani. Nei primi sette secoli dell’era musulmana, Rafah divenne uno snodo importante nei traffici tra Oriente e Occidente. Secondo storici arabi dell’XI secolo, offriva alberghi, negozi, un grande mercato e una moschea ai commercianti in viaggio.

Fu sotto l’Impero ottomano, nel 1906, che la sorte di Rafah cambiò nuovamente. Con una linea tracciata su una carta, la città fu tagliata a metà: da un lato venne accorpata all’Egitto, protettorato dei britannici, e dall’altro alla Palestina ottomana. Con il tracollo dell’Impero ottomano e la rivolta araba, Rafah fu riunificata sotto il controllo britannico nel 1917. Nel 1948, tuttavia, con il processo di nascita dello Stato di Israele, e l’espulsione di circa 750 mila palestinesi dalle loro terre storiche, la Rafah ex ottomana si trasformò in un campo profughi, controllato dagli egiziani, i quali però ripristinarono la divisione del 1906, stavolta tra palestinesi ed egiziani.

In una nuova torsione della storia, arrivò la guerra del 1967, quando Israele sconfisse gli eserciti arabi e occupò i territori palestinesi della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, di Gerusalemme est, oltre alle Alture del Golan appartenenti alla Siria e la penisola del Sinai egiziana. Gli abitanti di Rafah si trovarono riunificati sotto il controllo militare israeliano, che si protrasse per 15 anni, durante i quali il Canale di Suez segnò nei fatti la demarcazione tra l’Egitto e i territori occupati da Israele (una curiosità in proposito: nella segnaletica stradale israeliana si riaffacciò il toponimo Rafiah).

In seguito ai negoziati di Camp David e al trattato di pace firmato da Egitto ed Israele nel marzo 1979, i militari e i coloni israeliani si ritirarono dal Sinai nel 1982. In quel momento fu ricostruito il confine di Rafah, grosso modo sulla linea tracciata dal 1906. Per gli abitanti della città si trattò di un nuovo trauma; la frontiera tra i due Stati tagliava strade, quartieri residenziali, terreni agricoli. In molti dovettero decidere, nel giro di poche ore, se vivere nella Rafah egiziana o in quella occupata da Israele, Un aneddoto dell’epoca racconta di un notabile locale che aveva due mogli, una nella Rafah egiziana e l’altra nella Rafah di Gaza.

A parte la bizzarria di alcuni casi personali, da allora molte famiglie non sono più riuscite a riunificarsi. Sempre nel 1982 fu aperto il varco di Rafah tra Egitto e la Striscia di Gaza, controllato dagli israeliani, un passaggio ufficiale e riconosciuto per entrare ed uscire dai territori occupati. Nel 1994, l’anno successivo agli Accordi di Oslo, Israele e Autorità palestinese trovarono un’intesa per gestire congiuntamente il valico di Rafah. In realtà non era un accordo equilibrato, perché nella sostanza la sicurezza continuava ad essere gestita da Israele, che decideva chi potesse avvalersi del passaggio e chi no.

Nel 2001, in occasione della Seconda intifada, Israele si appropriò dell’intero controllo del posto di frontiera e allo stesso tempo distrusse l’aeroporto internazionale Yasser Arafat, il solo aeroporto della Palestina, costruito vicino a Rafah.

Nel 2005, in una politica di disimpegno avviata dall’allora primo ministro Ariel Sharon, fu deciso di porre fine all’occupazione militare di Gaza e di costringere i coloni israeliani ad abbandonare la Striscia. Per quella mossa, Sharon, l’uomo che aveva consentito il massacro palestinese di Sabra e Chatila a Beirut e da sempre considerato un falco della destra, divenne per parte dell’opinione pubblica israeliana, sempre più oltranzista, un traditore della patria. Il «disimpegno» israeliano da Gaza avvenne nel mese di settembre del 2005 e per alcune settimane, approfittando di una sorta di vuoto di potere, palestinesi di Gaza e dell’Egitto poterono incontrarsi e attraversare liberamente la frontiera.

Due mesi dopo, il varco di Rafah ritornò sotto il controllo congiunto di Israele e dell’Autorità palestinese. Nel 2007, altro cambio. In quell’anno Hamas vinse le elezioni politiche palestinesi e si impossessò del potere nella Striscia: il posto di frontiera fu allora affidato alla gestione egiziana da un lato e alle autorità del movimento islamico palestinese dall’altro. In tutti questi anni il varco è stato aperto solo ad intermittenza, ma rimane comunque l’unico passaggio non controllato direttamente, almeno fino ad oggi, da Israele.

In parallelo al nuovo status del valico, è cominciata la lunga storia dei tunnel scavati sottoterra e usati quotidianamente dai contrabbandieri per connettere le due città di Rafah, in Egitto e a Gaza, e commerciare prodotti di ogni sorta.

Più volte l’esercito egiziano ha cercato di allagare i tunnel od ostruirli con l’immondizia per bloccare un commercio clandestino fatto non solo di pizze e bevande gassate ma anche di armi e guerriglieri tra il Sinai e l’enclave palestinese.

Dal 2014, il presidente Abdel Fattah al-Sisi, appellandosi a ragioni di sicurezza e alla necessità di creare una zona cuscinetto tra Gaza e il Sinai, ha cominciato a demolire la Rafah egiziana, abitata da circa 78 mila persone. In una decina di anni, le autorità egiziane hanno fatto scomparire il centro storico, raso al suolo 800 case e condomini, distrutto 685 ettari di coltivazioni. Quel centro urbano è diventato così una città fantasma, come pure i paesini che lo circondavano. Solo un villaggio, el-Barth, necessario come base logistica all’esercito egiziano, è rimasto in piedi.

Nel frattempo, dal lato di Gaza, la Rafah palestinese è stata devastata da conflitti interni, bombardamenti e attacchi israeliani. Nel 2009 ci fu la «battaglia di Rafah» tra Hamas e un gruppo di ultra-islamisti, precursori dell’Isis, che avevano creato un emirato locale. Sempre nel 2009, in rappresaglia ad azioni militari di Hamas, il premier israeliano Benjamin Netanyahu lanciò la sua prima guerra contro la Striscia; nel 2012 ne scatenò una seconda, nel 2014 una terza, con bombardamenti e invasione di terra. In un solo giorno, il primo agosto del 2014, oltre a bombardamenti aerei, mille colpi di artiglieria colpirono la Rafah palestinese, mentre carri armati e bulldozer delle truppe israeliane radevano al suolo decine di case. In 24 ore furono uccisi 75 civili, di cui 24 bambini.

Arriviamo così al 7 ottobre 2023, all’attacco terroristico di Hamas in Israele, e alla quarta guerra del governo di Benjamin Netanyahu contro Gaza. Stavolta però non è semplicemente una guerra di rappresaglia o intimidazione come le altre: per scelte annunciate dagli stessi componenti dell’esecutivo israeliano, si è trasformata in una sistematica devastazione della Striscia, con costi umani catastrofici per la popolazione civile.

Rafah, nei primi mesi di guerra era stata indicata, dall’esercito israeliano, come zona sicura. La sua popolazione, già alla fame e in grave sofferenza prima che la nuova offensiva israeliana cominciasse, si è quintuplicata. Per cercare di salvarsi la vita, a Rafah s’è rifugiato un milione e mezzo di profughi, fuggiti da altre zone della Striscia. Le loro condizioni sono proibitive: vivono per lo più in tende, senza acqua e cibo sufficienti, senza possibilità di cure mediche, senza protezione.

Il peggio potrebbe arrivare da un momento all’altro, con l’annunciato attacco delle truppe di terra israeliane alla città per eliminare, si dice, due battaglioni di Hamas. I bombardamenti su Rafah sono già in corso, nonostante le proteste internazionali.

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