Ormai in tutti i consessi internazionali si evoca la nascita dello Stato di Palestina come (tardiva) soluzione alla crisi in atto in Terra Santa. Eppure suonano parole vuote, soprattutto se dette da chi fin qui ha remato in altre direzioni.
Non vogliamo sminuire in alcun modo l’importanza di appuntamenti come il Forum economico mondiale come ogni anno in corso a Davos (Svizzera). Però si ha sempre più spesso la sensazione che sedi come questa – o, per fare un altro esempio, come il G7 – siano usate dai soliti noti per concludere qualche affare e svolgere un po’ di pubbliche relazioni, mostrando però in facciata il volto compreso di chi sta lavorando a risolvere i problemi del mondo.
Dicevamo di Davos. È intervenuto Antony Blinken, il segretario di Stato Usa, che ha detto cose che sono parse – per gli interessi Usa senz’altro, ma non solo per quelli – piuttosto sensate. Per esempio che occorre trovare una strada per arrivare a uno Stato palestinese, senza il quale la sicurezza di Israele non sarà mai garantita. E che parimenti occorre integrare Israele nella regione per poter annullare la minaccia posta dall’Iran e dai suoi alleati (Hezbollah, Houthi…) che, dice Blinken, «al momento sono la maggiore preoccupazione riguardo alla sicurezza».
Il giorno prima, sulle stesse poltrone svizzere, si era accomodato il principe Faisal bin Farhan, ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita. L’omologo di Blinken ha detto esattamente le stesse cose, anche se in ordine rovesciato: siamo pronti a riconoscere Israele all’interno di un più ampio e articolato accordo politico, ma bisogna che lo Stato ebraico consenta la nascita di uno Stato palestinese.
Inutile ricordare che la soluzione a due Stati è quella auspicata, a tratti addirittura invocata, anche dai Paesi dell’Unione europea, dalla Cina e dalla Russia. Perfetto, tutti d’accordo. E allora perché non si fa? Non si fa per un’infinita serie di ragioni che rimandano alla storia, all’attualità e ai rapporti di forza della politica. Non si fa oggi e non v’è segno che si possa fare in un prevedibile futuro. Ma allora perché far finta che se ne stia parlando, che qualcuno da qualche parte stia lavorando per arrivarci?
Il caso degli Stati Uniti, cioè della massima potenza mondiale, è poi clamoroso. Hanno sempre appoggiato (o tollerato, se vogliamo) proprio la politica che ha reso di fatto impossibile (o poco plausibile, se vogliamo) la soluzione di uno Stato israeliano e uno palestinese uno a fianco dell’altro, cioè la politica degli insediamenti illegali in territorio palestinese che i governi israeliani perseguono senza sosta dal 1967. Gli Stati Uniti, approfittando del potere di veto che detengono nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, dagli anni Settanta ad oggi hanno bloccato 52 risoluzioni Onu che andavano, giustamente o no, a frenare l’operato israeliano. E adesso dicono che la soluzione a due Stati sarebbe l’unica a garantire una vera sicurezza per Israele? Ha senso dire una cosa e farne un’altra che va esattamente nel senso opposto?
Lo stesso potremmo dire dell’Arabia Saudita. La ricchissima monarchia del Golfo Persico, che pure è patria a non più del 2 per cento dei musulmani, esercita un’influenza enorme sull’islam mondiale anche perché per lunghi anni ha investito somme enormi nel sostegno all’islamismo radicale. Ora il mondo è cambiato, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman immagina per il proprio Paese un futuro meno legato al petrolio e più partecipe dei grandi flussi politici globali, ma riavvolgere la storia, come le azioni di Hamas dimostrano, è tutt’altro che facile.
L’idea che prima si fanno la pace e lo Stato palestinese e poi ci si mette d’accordo con Israele è impraticabile, e soprattutto dimostra una cosa: che Hamas e l’estremismo terroristico, con la minaccia di trasferire altrove la loro violenza, riescono ancora a ricattare anche gli Stati musulmani più ricchi e potenti.