Davanti alle grandi crisi, evochiamo spesso la comunità internazionale, quasi fosse depositaria delle soluzioni. In realtà essa non un’entità coerente e compatta, ma un coacervo di interessi spiccioli in perenne mutazione e assestamento. Anche riguardo al dramma in Terra Santa.
Tra le ragioni del dramma israelo-palestinese, e di certo tra le ragioni del suo prolungamento oltre ogni limite di decenza, ragionevolezza e credibilità politica, c’è la pavidità della cosiddetta «comunità internazionale», che continuiamo a pensare come un’entità coerente mentre si tratta di un coacervo di interessi spiccioli in perenne mutazione e assestamento.
Dal 7 ottobre scorso, cioè da quando Hamas ha lanciato un’offensiva terroristica senza precedenti contro i civili e i militari di Israele, questa realtà è diventata evidente in maniera quasi dolorosa. Prendiamo l’ultimo esempio. Qualche giorno fa gli Usa hanno posto il veto in Consiglio di Sicurezza a una bozza di risoluzione Onu che aveva già ottenuto il consenso di 13 Paesi e l’astensione del Regno Unito per una tregua immediata a Gaza. Subito dopo, il presidente statunitense Joe Biden se n’è uscito con una serie di affermazioni sorprendenti: «Israele sta cominciando a perdere sostegno in tutto il mondo»; «Netanyahu è un buon amico, ma credo debba cambiare. Deve cambiare il suo governo»; «Netanyahu non potrà dire no a uno Stato palestinese in futuro»; quello attuale è «il governo più conservatore nella storia di Israele» e «non vuole la soluzione a due Stati».
Biden, in sostanza, ha detto tutte quelle cose che, di solito, attirano sulle persone comuni l’insulto di «antisemita» o l’accusa di essere «amico di Hamas». Il punto vero, però, è un altro: se questa è la realtà di Netanyahu e del suo governo, perché gli Usa hanno bloccato la richiesta di tregua umanitaria, considerata accettabile da tutti gli altri membri (permanenti o non permanenti) del Consiglio di Sicurezza? Non è ovvio che finché gli Usa continueranno ad appoggiarlo comunque (anche se considerano pessimo il suo governo e sbagliata la sua azione), Israele non cambierà rotta?
La stessa cosa vale per quello che, un po’ abusivamente, potremmo considerare l’altro fronte. Restiamo in ambito Onu. Il 27 ottobre la Giordania ha proposto all’Assemblea Generale, a nome dei Paesi arabi, un progetto di risoluzione per una «tregua immediata» a Gaza. Quella risoluzione (che in ogni caso non ha valore vincolante) ha raccolto 120 consensi, ma ha due colossali buchi: non nomina Hamas (come se il movimento islamista non avesse avuto alcuna pace nella crisi di Gaza) e menziona solo indirettamente gli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre (e in parte liberati con la tregua di fine novembre).
Il che dimostra che i Paesi arabi non riescono a condannare apertamente il terrorismo di Hamas, forse nel timore di dover poi affrontare rigurgiti di islamismo all’interno dei propri Paesi. Ma si può immaginare una soluzione a «due popoli due Stati», che resta quella più citata nella politica internazionale, senza prevedere uno stop al terrorismo, accanto a uno stop alle indiscriminate campagne militari di Israele?