«È un tempo tragico quello che stiamo vivendo. I massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre scorso hanno avuto effetto su ogni angolo del Paese. Siamo di fronte a una ferita profonda che resterà negli israeliani per molti anni a venire». La videochiamata da Gerusalemme con Anton Goodman, membro dello staff di Rabbini per i diritti umani (Rabbis for Human Rights) inizia con queste parole.
«Come organizzazione che include persone sopravvissute a quei massacri – continua Anton – tali eventi si riverberano ancora sui nostri cuori. Stiamo lavorando con tristezza, cercando però di tenere insieme due livelli: il dolore sul piano umano e la sfera dell’ebraismo. La nostra umanità è connessa alla nostra fede: vediamo pertanto tutta la sofferenza che si sta consumando intorno a noi e dall’altro lato, sul versante palestinese».
Una rete di rabbini per proteggere i diritti umani
L’organizzazione è nata nel 1988, nel pieno della Prima intifada, in risposta alle violazioni dei diritti umani che avvenivano in Cisgiordania. Oggi è guidata da una rete di 160 rabbini israeliani, uomini e donne, appartenenti a diverse correnti dell’ebraismo, tra cui quella chiamata «umanista» (humanist). Alcuni membri non sono ancora rabbini, ma studiano per diventarlo.
Accanto a un impegno nel campo dell’educazione e del dialogo interreligioso, l’associazione lavora per promuovere la giustizia sociale ed economica all’interno di Israele e dei Territori occupati.
Gli appelli pubblici
«Gli eventi del 7 ottobre non ci hanno paralizzato», dice Anton. «Abbiamo diffuso appelli e comunicati sin da subito, il giorno dopo che il nostro direttore Avi Dabush era stato tenuto rinchiuso dai terroristi di Hamas nel rifugio di casa sua, a Sderot. I terroristi hanno ucciso i suoi vicini di casa. Quegli eventi sono stati uno choc, ma la nostra voce, il nostro “campo morale” è intatto. Abbiamo tante cose da dire e diverse attività in corso».
In collaborazione con altre realtà per i diritti umani – israeliane e miste – nelle scorse settimane l’associazione ha promosso appelli per chiedere di fermare l’escalation di violenza anche nelle relazioni tra ebrei e arabi in Israele, e per sollecitare aiuti umanitari per Gaza.
L’attenzione alle violenze in Cisgiordania
Il 31 ottobre sul quotidiano Haaretz è poi uscito un appello alla comunità internazionale, firmato da diversi gruppi (tra cui, insieme a Rabbini per i diritti umani, Amnesty International Israel, Zochrot, la Scuola per la pace di Neve Shalom Wahat al Salam, Machsom Watch…), per porre l’attenzione sulla violenza dei coloni «sostenuta dallo Stato» verso le comunità palestinesi in Cisgiordania. «Questa violenza sta spingendo le comunità palestinesi sull’orlo dello sfollamento forzato ed è già riuscita a cacciare diverse comunità», vi si legge.
«Tutte queste prese di posizione – spiega Anton – vengono da gruppi che in prima persona soffrono e hanno avuto dei lutti. Non da un contesto anti israeliano o scollegato da ciò che stiamo passando. Noi siamo israeliani, questa storia è la nostra storia. E le nostre voci, che stanno chiedendo compatte la fine della violenza, devono essere ascoltate».
La raccolta delle olive
L’attività più impegnativa che l’organizzazione svolge annualmente è la partecipazione alla raccolta delle olive nei Territori Palestinesi. Ogni ottobre – insieme alle realtà della società civile con cui collabora – coinvolge centinaia di volontari, israeliani e internazionali, per garantire una presenza che sia insieme di aiuto agli agricoltori e protezione dalle violazioni messe in atto da coloni estremisti. Quest’anno la raccolta doveva iniziare il 13 ottobre.
«Lasciatemi ricordare la centralità di questa attività per la popolazione palestinese», puntualizza Anton. «Centinaia di famiglie vivono di quello: parliamo di milioni di alberi d’ulivo in tutta la Cisgiordania. I contadini possono raccogliere le olive solo per un mese all’anno, anzi due settimane costituiscono il periodo migliore. Potete immaginare quindi quanto sia importante poter realizzare la raccolta…».
A ottobre l’organizzazione è riuscita comunque a inviare una presenza, anche se ridotta rispetto agli anni passati. «La settimana scorsa, ad esempio, abbiamo mandato 15 volontari per aiutare un agricoltore che era da solo e spaventato. Parte del suo terreno confina infatti con una strada percorribile solo dai coloni. Nelle ultime settimane abbiamo visto di persona anche noi crescere sensibilmente il livello di violenza da parte di questi nuclei di estremisti».
Solidarietà alle famiglie in difficoltà
Lo scenario che Anton ci descrive rispetto alla Cisgiordania è sconfortante. Nell’ultimo mese i prezzi di gran parte dei beni di prima necessità sono saliti, le difficoltà di movimento aumentate e il reddito calato drasticamente.
Così, Rabbini per i diritti umani ha deciso di dare inizio anche a un altro progetto umanitario. «Di solito non ci occupiamo di iniziative di questo tipo, non sono il nostro focus principale», commenta l’attivista. Ma la crisi economica incombe. Insieme a un’associazione di Tel Aviv, Culture of solidarity, i volontari preparano pacchi alimentari destinati a diverse fasce di popolazione: famiglie palestinesi dei Territori minacciate dai coloni, comunità beduine nel Neghev, sfollate dopo i massacri del 7 ottobre al confine con la Striscia di Gaza, lavoratori migranti e richiedenti asilo.
L’uomo a immagine di Dio
«Ma il vero cuore della nostra organizzazione è la sua visione teologica», precisa Anton alla fine della videochiamata. «L’umanità è stata creata a immagine di Dio. Per questo merita la vita. E la vita non inizia, né finisce, con un confine, né ha a che fare con la nazionalità o con la nascita. È il valore per noi più importante. Un valore che è stato gravemente eroso all’interno della società israeliana, e che stiamo cercando di riportare al primo posto».
Per questo motivo, conclude, «stiamo compiendo ogni sforzo possibile per attuare un cambiamento dall’interno della nostra società. Stiamo aumentando le attività e cercando di far sentire più forte la nostra voce nel Paese».
Un appello urgente per le comunità palestinesi in Cisgiordania
(g.s.) – È firmato da una trentina di ong della società civile israeliana e di organismi attivi nella difesa dei diritti umani l’appello urgente alla comunità internazionale, sottoscritto anche da Rabbini per i diritti umani, e pubblicato il 31 ottobre scorso sulle pagine del quotidiano Haaretz.
Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulla Striscia di Gaza, i firmatari dell’appello lanciano l’allarme su quel che sta accadendo in Cisgiordania e chiedono di «agire con urgenza».
«Nelle ultime tre settimane – denuncia l’appello –, dopo le atrocità di Hamas del 7 ottobre, i coloni approfittano dell’assenza di attenzione pubblica sulla Cisgiordania, e della generale atmosfera di rabbia contro i palestinesi, per intensificare la loro campagna di attacchi violenti nel tentativo di trasferire con la forza comunità palestinesi. Durante questo periodo, non meno di tredici comunità di pastori sono state allontanate. Molte altre rischiano di essere costrette ad andarsene nei prossimi giorni se non si interviene immediatamente».
L’autunno è per i coltivatori un momento cruciale. «I contadini palestinesi – spiega l’appello – sono particolarmente vulnerabili in questo periodo, che coincide con la raccolta annuale delle olive, perché se non possono raccogliere le loro olive perderanno un’annata di proventi. Ieri Bilal Muhammed Saleh, del villaggio di As-Sawiya a sud di Nablus è stato assassinato mentre si prendeva cura del suo uliveto. È il settimo palestinese ucciso dai coloni da quando è iniziata la guerra in corso [tra Hamas e Israele – ndr]».
«Purtroppo, il governo israeliano appoggia questi attacchi e non fa nulla per fermare la violenza. Anzi: ministri del governo e altri funzionari sostengono le violenze; in molti casi i militari sono presenti o prendono parte attiva alle violenze, anche negli episodi in cui i coloni hanno ucciso dei palestinesi. Da quando la guerra è iniziata c’è stato un numero crescente di episodi in cui coloni violenti hanno documentato attacchi a vicine comunità palestinesi indossando uniformi militari e utilizzando armi distribuite dal governo».
«Profondamente preoccupati e con una nitida comprensione dell’orizzonte politico – si conclude l’appello delle ong –, siamo convinti che l’unico modo per fermare questi trasferimenti coatti in Cisgiordania sia un chiaro, deciso e diretto intervento della comunità internazionale».