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Nell’orrore della guerra, piccoli semi di speranza

fra Alberto J. Pari
21 novembre 2023
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Da una decina d'anni mi occupo di dialogo interreligioso in Terra Santa. Tutto il mio impegno è stato soprattutto nell’abbattere muri di separazione ideologici, creando ponti fatti di incontri, di conoscenza reciproca. Dal 7 ottobre 2023 tutto è più difficile, eppure...


Scrivo queste parole dopo oltre un mese di guerra. Venerdì 6 ottobre ero a cena da amici per la festa di Simkhat Torah – la gioia della Torah, la vigilia dell’ultimo giorno di Sukkot – la festa dei tabernacoli. Il giorno dopo ci siamo svegliati in guerra. Abbiamo subito capito la gravità dei fatti che ci hanno investito, ma solo nei giorni successivi abbiamo iniziato a comprendere il tremendo futuro che ci attendeva.

Vivo in Terra Santa da diciassette anni e da circa dieci mi occupo di dialogo interreligioso. Tutto il mio impegno è stato soprattutto nell’abbattere muri di separazione ideologici, creando ponti fatti di incontri, di conoscenza reciproca, che aiutino a diminuire l’ignoranza che i cristiani hanno nei confronti di musulmani ed ebrei e viceversa. Da quel sabato tutto è cambiato e ogni giorno diventa più difficile.

A Gerusalemme e in tutto il Paese aumentano atti di violenza di ebrei nei confronti di arabi e gli attentati di arabi contro gli ebrei; so che in alcuni ambienti di lavoro israeliani hanno licenziato i dipendenti arabi per paura, dopo quello che è successo nei kibbutz vicini a Gaza, perché si incolpano alcuni operai arabi di aver collaborato a organizzare il massacro.

In questo contesto la prima reazione potrebbe essere quella di arrendersi di fronte al male che ci sovrasta e toglie le energie. Ho sperimentato il fallimento e lo sconforto, ma gli amici ebrei con i quali collaboro da anni non hanno permesso di fare spazio allo sconforto né al senso di fallimento. Si sono mossi subito per creare circoli di solidarietà che pensassero soprattutto ai più fragili della comunità araba della città.

Nei quartieri di Gerusalemme Est le famiglie avevano paura di andare nei supermercati israeliani della parte occidentale della città e i piccoli negozi di quartiere non ricevevano rifornimenti; quindi intere famiglie restavano senza alimenti di base. Gruppi di giovani universitari, che non avranno lezioni per mesi, perché la maggioranza dei coetanei sono impegnati nell’esercito, si sono organizzati per raccogliere generi di prima necessità e consegnarli a domicilio a queste famiglie. Noi frati cerchiamo di aiutare come possiamo, «camminando sulle uova», perché ogni parola detta, ogni gesto compiuto, può creare sofferenza in qualcuno e non è quello che vogliamo fare in nessun modo.

Abbiamo aperto le nostre case per pellegrini per accogliere le famiglie dei feriti ricoverati in un ospedale vicino a Ain Karem e per i migranti filippini sfollati dalle città più colpite dai bombardamenti, sia al nord che al sud del Paese. Inoltre abbiamo messo a disposizione spazi dove raccogliere abiti e altri beni per le famiglie bisognose. Piccoli gesti di vicinanza che aumenteranno nelle prossime settimane se la situazione non si risolverà presto. A preoccuparmi maggiormente sono i traumi e le ferite interne che tutti avranno dopo questa guerra e come potremo aiutare a sanare e ricucire legami e dialogo. So di non essere solo in questo processo e ho avuto già tanti segni di speranza che mi hanno aiutato a vedere l’umano che c’è in tante persone di buona volontà. Come cristiani siamo chiamati a fare la differenza, a testimoniare e insegnare il perdono, che purtroppo i nostri fratelli ebrei e musulmani non conoscono abbastanza e non sanno ancora accogliere come valore da coltivare e far crescere in una terra che invece ne avrebbe tanto bisogno.

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